I libri di Ibrahima Lo

Pane e acqua. Dal Senegal all’Italia passando per la Libia (2021)
La mia voce. Dalle rive dell’Africa alle strade d’Europa (2024)

Commento di Tiziana Zannato

Pane e acqua. Dal Senegal all’Italia passando per la Libia


Ibrahima Lo
2021
Villaggio Maori Editore, Catania,
pagg 104.

La mia voce. Dalle rive dell’Africa alle strade d’Europa


Ibrahima Lo
2024
Villaggio Maori Editore, Catania,
pagg 76.

Giovani scrittori, perché scrivere?

L’autore e protagonista è un giovane ventiquattrenne, scrittore ai primi esordi. Era un adolescente diciasettenne quando è partito dal suo paese nel Senegal nel 2017 per fuggire dalla povertà con il desiderio di studiare, scrivere e diventare giornalista. E’ Ibrahima Lo l’autore dei due libri “Pane e acqua” scritto nel 2021 a 21 anni e “La mia voce” scritto nel 2024 a 24 anni, autore e protagonista che narra con la sua testimonianza la drammatica esperienza di viaggio dal Senegal all’Italia, attraversando il deserto del Sahara, la detenzione nelle carceri libiche subendo violenze e ricatti, la traversata del Mar Mediterraneo con un gommone, fino all’ arrivo in Italia. Lasciato il suo paese nel dicembre del 2017, parte conservando dentro di sé la promessa condivisa con il padre morente di realizzare un sogno, di diventare giornalista, arriva in Italia. La vita nel paese che lo accoglie non è facile come si aspettava, ma riesce mantenere vivo quel sogno. Dopo qualche anno, inizia a scrivere la sua atroce esperienza, perché dice “voglio raccontare, voglio dare voce a chi voce non ne ha più, a scrivere per gli altri, gli invisibili, quelli che non ce l’hanno fatta a salvarsi” (2021, p.86). Con queste parole l’autore sembra voglia dare voce a qualcosa di sé e contemporaneamente mantenere dentro qualcosa degli altri.

In entrambi i libri colpisce lo stile narrativo, soprattutto nel primo: asciutto, concreto, dove le cose sono chiamate con il loro nome, pagine dove parla la cosa, non il sentimento sulla cosa e per la cosa, perché sembra sia l’unico modo possibile per affrontare quella realtà. I fatti si snodano e gradualmente sono avvolti da sentimenti di paura, di impotenza, di angoscia per un ignoto che si trasforma in un’altra realtà. Il lettore può cogliere la brutalità delle esperienze gradualmente, è una lenta inquietudine che accompagna il passaggio dall’umano al disumano e che svela una realtà brutale, inimmaginabile, lontana, impossibile da comprendere e da pensare. 

Nel libro “Pane e acqua” c’è la partenza con i tanti desideri, con i sogni ad occhi aperti di un adolescente.  L’autore lascia la sua terra, piena di colori, di odori, di amici che abbracciano con lui e per lui la speranza di una vita migliore,  ma questi vissuti propri e condivisi via via svaniscono, si perdono e trascinano Ibrahima Lo nell’oscurità, si fa spazio l’incredulità, lo stupore, la dolorosa delusione  per vedere svanito il suo sogno, il volere ritornare indietro e non poterlo fare, perché imprigionato, il patire sofferenze fisiche e psichiche, la paura e l’angoscia di non farcela, lo sperimentare il rischio di non riuscire a sopravvivere, saziando la fame con pane e acqua, bisogni primari, fino a temere di morire. Il corpo è il protagonista di questa sofferenza fisica e psichica, “Le ferite che non guariscono, le cicatrici nel corpo, sono le cicatrici dell’anima, dice Ibrahima Lo commentando il suo libro “Pane e acqua” in occasione di un evento pubblico. Il corpo sembra il luogo del trauma fisico e psichico. Così gli oggetti non sono solo cose, rappresentano la pregnanza del suo vissuto emotivo, il ricordo del pane, non è più il pane di prima, oggetto simbolico della sofferenza, amaro, diventa ora un pane buono con un sapore che nutre, che riscalda, scrive in “La mia voce”.

 In “Pane e acqua” racconta l’arrivo in Italia e il riemergere della speranza, c’è l’impatto con tante difficoltà, c’è il bisogno di integrarsi, di raggiungere una certa stabilità, riparare le ferite, cercare con coraggio un suo posto nel mondo, un riconoscimento della sua identità originaria. Lo scrivere sembra rappresentare la salvezza, la forza di un Io che crede nel potere trasformativo della scrittura, come viene detto nella prefazione del suo secondo libro. 

 La lettura di entrambi i libri, uno in continuità con l’altro, ci riporta, nel primo libro, nel qui e ora delle esperienze traumatiche vissute, nel secondo libro c’è un volgere lo sguardo e la mente verso il futuro. La scrittura, attraverso questi passaggi legati alla temporalità, permette di affrontare le aree oscure del passato, elaborarle e integrarle dentro di sé, transitando in un prima e in un dopo.  Le origini, la vita trascorsa nei propri luoghi familiari, la partenza, i ricordi delle esperienze vissute durante il viaggio nel crinale tra la vita e la morte, la salvezza, vengono ricordate e ri-iscritte solo in un’altra realtà, in un ambiente più sicuro e accogliente, dove l’incontro con figure affettivamente significative, permettono  di ricucire le ferite, i traumi, e iniziare a scrivere, una sorta di  “oggetto terapeutico”, pensando a Winnicott (1989), che l’autore ha trovato e  usato per depositare e condividere i suoi vissuti tragici ed elaborare la propria esperienza. Ricorda che mentre scriveva, ogni parola lo faceva piangere, ma anche lo aiutava ad andare avanti nella scrittura e mantenere vivo il desiderio di vita.  In “La mia voce” scrive: “Il ritorno nella mia terra natia ha rappresentato un momento cruciale: avevo già pubblicato il mio primo libro “Pane e acqua” …mi sentivo finalmente sicuro e consapevole di aver fatto ordine nella mia vita” (2024, p.13).

Nel secondo libro lo stile narrativo cambia, il racconto degli accadimenti lasciano lo spazio ai ricordi, ai pensieri che si confrontano tra un passato, un presente, un futuro e diventano scrittura. Ritroviamo un protagonista che non lotta più per la vita, per “vivere”, ma per ritrovare la propria esistenza, per “esistere”, come dice Garella A. (2024). Qui si coglie il Sé dell’autore, la sua capacità  di elaborare e di confrontare due storie, quella nuova e quella del passato, si percepisce un’emotività intensa, le parole toccano il lettore, scuotono e svelano qualcosa che è allo stesso tempo estraneo, ignoto e pure così familiare, perturbante, come dice Freud (1919), perché è un qualcosa di profondo che abita in tutti noi e proprio la lettura permette di entrare in contatto con quegli aspetti di sè non esplorati,  nello stesso tempo ampliare la concezione dell’umano,  perché  è una testimonianza diretta, invisibile che Ibrahima Lo racconta per rendere umano, visibile ciò che umano non è, ma che appartiene all’essere umano, a tutta l’umanità.

Perché scrivere?

Lo dice l’autore, per sé, per gli altri, per dare voce a chi non ce l’ha più, per conservare qualcosa di sé, la propria voce, la continuità della propria storia esistenziale, il proprio senso di appartenenza, per dirla con Silvia Amati Sas, per mantenere vivo dentro di sé “l’oggetto da salvare” (2020), depositario della propria sopravvivenza psichica prima, di salvezza e di speranza poi. Nel viaggio in aereo nel suo ritorno in Senegal o nella nave ONG che l’ha salvato, osserva il mare, la sua bellezza, i suoi colori, ma in profondità quel mare conserva il buio, la morte e rievoca la tristezza, il dolore per la perdita di parti di sé e degli altri compagni di viaggio. Nella presentazione dei suoi libri al Festival delle Idee, nella città dove ora vive, racconta: “Ho pianto e ho riso insieme a chi mi ha salvato, ho guardato dall’alto della nave e ho pensato: dentro la bellezza del mare c’è il dolore”.

Nel libro “La mia voce” c’è il viaggio del ritorno in Senegal, uno sguardo diverso, ferito dalle esperienze passate, ma pieno di vita “…. Il viaggio affrontato alcuni anni prima si era svolto in tutt’altra maniera, non solo per il tragitto inverso, ma perché l’avevo affrontato da clandestino: senza documenti e senza diritti… Dopo lo scalo ho ripreso il viaggio verso la mia patria: mi hanno controllato i documenti e mi hanno trattato con rispetto. Invece durante il viaggio verso le coste europee sono finito in carcere…ci hanno privato della nostra libertà e della nostra dignità. Ci hanno tolto tutto…Anche in questo secondo viaggio ho attraversato il mare, era sotto di me mentre ero comodamente seduto in aereo. Non ho potuto fare a meno di pensare a quando l’ho attraversato su un mezzo di fortuna (un gommone) rischiando la vita…in quei giorni ho visto tante, troppo persone cadere in mare. Ero impotente, restavo a guardare e speravo che non mi toccasse la stessa sorte. Sul gommone non riuscivamo neanche a guardare in faccia i compagni e le compagne di viaggio, ci teneva divisi la disperazione…Avevo conquistato un diritto fondamentale che in passato mi era stato negato: il diritto di viaggiare, di muovermi liberamente” (2024, pagg.13-15).

Verso la fine del libro, emerge un sentimento di gratitudine verso coloro che non si sono salvati, espressione del forte legame emotivo che si è creato durante il viaggio, una sorta di scudo protettivo gruppale difensivo, esperienza che evoca per alcuni aspetti le testimonianze di vita segnate da chi ha subito la persecuzione nei lager.                                                                                                                                                                                         

Alcune riflessioni sulla lettura dei due testi e sulla capacità creativa dell’autore. Pensando a Freud in “Il poeta e la fantasia” dove afferma: “le singole fantasie, i castelli in aria, i sogni ad occhi aperti si adattano alle variabili impressioni offerteci dalla vita…”(1907, p. 378) sembra che l’autore sia stato capace di risvegliare e realizzare uno dei suoi più grandi desideri, legato all’antico ricordo dell’esperienza passata nell’infanzia in cui quel desiderio veniva esaudito, che ricompare e si organizza nel presente sotto forma di opera narrativa. Anche nei momenti più terribili, sembra essere riuscito a conservare quello spazio intermedio tra il sogno ad occhi aperti, la fantasia e la realtà, dove il desiderio di realizzare qualcosa che gli apparteneva e che aveva condiviso con il padre, gli ha permesso di affrontare anche la più terribile realtà e trascriverla nel linguaggio della scrittura.

Per concludere, vorrei riportare una riflessione che Ibrahima propone nella parte finale del libro “La mia voce” a proposito di una significativa differenziazione: “la distinzione tra i due termini “integrazione” e “interazione”, la differenza è di  una sola lettera, l’integrazione implica che la tua religione , la tua lingua, le tue abitudini debbano in qualche modo cambiare e adattarsi alla cultura dominante…L’interazione sottintende uno scambio reciproco e paritario, in cui entra in gioco la volontà di conoscere e comprendere i bisogni e i desideri degli altri. Questo può portare ricchezza nell’individuo e nella società” (2024, p.62).

 

Bibliografia:

Amati Sas S. (2020). Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Milano, F. Angeli. 2020.

Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. O.S.F.  5. Torino, Boringhieri. 1972.

Freud S. (1919). Il perturbante. O.S.F. 9. Torino, Boringhieri. 1972.

Garella A. (2024). “Essere, vivere, esistere in psicoanalisi”, relazione presentata al Convegno “Autoconservazione, tra istinto e pulsione”,  Centro Veneto di Psicoanalisi, Novembre 2024.

Winnicott D.W, (1989). “L’uso dell’oggetto”, in Esplorazioni psicoanalitiche. Milano, Raffaello Cortina, 1995.

 

Tiziana Zannato, Venezia

Centro Veneto di Psicoanalisi

tiziana.zannato@gmail.com

Condividi questa pagina:

Centro Veneto di Psicoanalisi
Vicolo dei Conti 14
35122 Padova
Tel. 049 659711
P.I. 03323130280

Servizio di Consultazione