Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Franca Munari
Il fatto scelto è l’elemento che dà coerenza agli oggetti della posizione schizoparanoide e dà così inizio alla posizione depressiva, può fare tutto ciò grazie al fatto di stare al punto di intersezione di una serie di diversi sistemi deduttivi e di appartenere così a tutti loro… L’analista deve occuparsi di due modelli: uno che egli deve costruire e l’altro implicito nel materiale prodotto dal paziente. (Bion, 1970, 149-150)
Per Hammershøi due sono gli elementi che vanno a costituire il fatto scelto nelle sue opere di interni: la luce del sole all’interno della casa, la sua casa di Copenhagen e le porte di quella stessa casa.
La sua è pittura di precisione, miniata in ogni particolare. Dipinse pochissimi quadri, perlopiù quadri di interni, interni di quella casa appunto, e poi ritratti, la moglie soprattutto.
Limitata la scelta dei colori, colori da muri e di porte bianche, semplici, e di abiti scuri, quasi dimessi, abiti da casa, una casa quieta.
Una grande lentezza, Dreyer nelle sue regie la colse e la rappresentò, la mise in movimento, in un lento movimento.
Non ci si può sottrarre alla sensazione di tristezza, di depressione probabilmente, raccontata dai grigi, dai vuoti, dalla sensazione di ‘spoglio’, eppure se ne resta incantati.
Lo sguardo si arresta in quelle stanze, perlopiù disabitate, quasi disadorne. Non sai cosa fartene eppure rimani, continui a guardarle, a guardare porte di vernice bianca, spalancate o chiuse, protagoniste dell’opera. Te ne stacchi a fatica, l’incantamento permane nel ricordo.
Me ne sono chiesta la ragione, ma senza trovare una risposta soddisfacente. Sicuramente non c’è nulla che aspiri a essere simbolico. Porte e soglie potrebbero esserlo, ma non sembra questa la loro funzione. Solo una silenziosa, attrattiva bellezza.
Forse, come in molti quadri di de Chirico, nelle sue sequenze di archi ad esempio, perché si tratta di soggetti interrotti e se un elemento laterale dell’immagine viene tagliato, lo sguardo va immediatamente su di esso. Nel caso di Hammershøi il ritaglio del quadro contiene solo parti della casa, prospettive limitate, con elementi inevitabilmente interrotti e lo sguardo è costretto a cercare di catturare ciò che non può vedere, ciò che potrebbe arrivare forse, ciò che probabilmente c’era e per amor del quadro è stato esiliato e accatastato altrove. Perché Hammershøi per i suoi quadri di interni toglieva mobili e suppellettili che usualmente arredavano la sua casa. “Per via di levare” quindi, come per la scultura, anziché come di dà per la tecnica pittorica “per via di porre”. O meglio, in questo caso, in sequenza prima levare e poi porre. Freud utilizza questa analogia, attribuendola a Leonardo, per differenziare la terapia analitica “per via di levare”, dalla tecnica della suggestione “per via di porre”: “La terapia analitica, non vuole sovrapporre né introdurre alcunché di nuovo, bensì togliere via, far venir fuori, e a tale scopo si preoccupa della genesi dei sintomi morbosi e del contesto psichico dell’idea patogena che mira a eliminare.” (Freud 1904, 432 corsivo mio)
I luoghi che prendono forma in queste opere sono appunto dei contesti psichici.
C’è chi vede in questa ripetizione di temi, quella che sarà trenta anni dopo, la poetica di Giorgio Morandi: “per l’uno gli scorci dell’appartamento di Strandgade a Copenaghen, per l’altro, una trentina di anni dopo, le nature morte ‘assemblate’ nello studio di via Fondazza a Bologna…” (Bolpagni 2025, 19)
Per me non è stato questo l’elemento, comune ai due artisti, che mi aveva fatto pensare a Giorgio Morandi, quanto lo studio della possibilità della resa pittorica di riprodurre il passaggio dello sguardo figura sfondo, sfondo figura. Il tradursi, trascolorare dell’una nell’altro, dell’uno nell’altra. La consustanzialità della loro reciproca esistenza. L’evidenza della luce e dell’ombra, dell’incidenza del sole negli interni, quando tocca, scivola, inquadra, distribuisce. L’interdipendenza del soggetto, dell’oggetto concreto anche, con l’ambiente, questione che ci condurrebbe molto lontano anche in una prospettiva psicoanalitica, fu Winnicott (1958) a decodificarlo, ma possiamo ritrovarne le radici, fin dal primo Freud del Progetto (1895)
L’altro importante riferimento va alle atmosfere del teatro scandinavo di Henrik Ibsen e August Strindberg.
Perché la apparente immobilità di questi spaccati di interni contiene storie, evoca storie, le promuove. Storie lente e complesse, sottili.
Sarà il regista Carl Theodor Dreyer a raccogliere e animare la vita di questi interni, nel suo ultimo film Gertrud (1964) ad esempio, concretamente utilizzando Hammershøi come scenografo delle sue stanze e concedendo agli attori quel minimo di pochi e controllati movimenti che i ritratti di Hammershøi permettono di attribuire ai suoi composti e sbiaditi soggetti.
Tutto questo mi ha fatto ricordare il concetto bioniano di “fatto scelto”, cioè l’elemento che dà coerenza agli oggetti della posizione schizoparanoide e dà così inizio alla posizione depressiva. (Bion 1967, 1499)
Un minimo comun denominatore che sta al punto di intersezione di una serie di diversi sistemi deduttivi. (ibid.)
Chi si rapporta a questi quadri come L’analista deve occuparsi di due modelli: uno che egli deve costruire e l’altro implicito nel materiale prodotto dal paziente. (ibid.)
Bibliografia
Bion W.R. (1967) Il gemello immaginario. in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando, Roma (1970).
Bolpagni P. (2025) Poetica, fortuna e contesto dell’arte di Hammershøi. In (a cura di) Bolpagni P. Hammershøi. Dario Cimorelli Editore, Milano.
Freud S. (1895). Progetto di una psicologia. OSF, 2.
Freud S. (1904) Psicoterapia OSF 4.
Winnicott D.W. (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Giunti, Firenze, 2017
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