Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Elisabetta Marchiori
Titolo: Riefenstahl
Dati sul film: regia di Andres Veiel, 2024, Germania, 115′
Genere: documentario
Trailer: https://youtu.be/lFuSIsFsfgE
“Tutto è andato come doveva andare”: così ripete, ossessivamente, Billy Pilgrim, il protagonista di Mattatoio n. 5 (Slaughterhouse-Five, 1969) di Kurt Vonnegut, romanzo in cui la devastazione del bombardamento della città barocca di Dresda, da parte degli Alleati nel 1945, viene rievocata come esperienza allucinata, frammentata, fuori dal tempo. Vonnegut, prigioniero di guerra americano, si trovava rinchiuso insieme ad altri compagni nel seminterrato di un mattatoio dismesso, che i tedeschi avevano adibito a rifugio e campo di lavoro.
Nel romanzo, lo scardinamento temporale del protagonista — unstuck in time (scivolato fuori dal tempo) — diventa una potente metafora del trauma psichico, che dissocia la psiche e frantuma la memoria, dissolvendo la distinzione tra passato, presente e futuro. Vonnegut e gli altri prigionieri furono anche costretti a recuperare i cadaveri delle vittime civili sotto le macerie; erano talmente tanti (si stima circa 25.000) che i tedeschi li cremarono direttamente sul posto con i lanciafiamme.
A Vonnegut sono serviti più di vent’anni per trovare una forma narrativa capace di contenere e condividere quell’esperienza estrema, che è riuscito a esprimere solo attraverso il paradosso, l’ironia e una struttura scomposta, non lineare.
È proprio a Dresda, la “Firenze sull’Elba”, ricostruita sulle proprie macerie e segnata nella sua identità dalla memoria del trauma bellico, che si è svolta la 38ª Conferenza annuale della Federazione Europea di Psicoanalisi, intitolata Freedom. In questo contesto, la proiezione del documentario Riefenstahl (2024), seguita dal panel Fake Freedom or The Art of Lying: The Film Riefenstahl, con il regista Andres Veiel, è stata un gesto politico e simbolico significativo.
La comunità psicoanalitica ha scelto di confrontarsi con quella propaganda estrema e capillare che il nazismo ha usato per costruire la propria immagine, ottenere consenso e condurre l’Europa alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, mentre distoglieva l’attenzione dal genocidio, trasformando la violenza delle parole e delle azioni in spettacolo estetico.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2024, Riefenstahl affronta con rigore e profondità la figura complessa e disturbante di Leni Riefenstahl, la “sacerdotessa dell’estetica nazista”, la “valchiria del Reich”. Veiel, regista tedesco con una formazione in psicologia, mette a frutto il suo doppio sguardo — analitico e artistico — per restituire non solo una biografia, ma un’indagine psichica su un personaggio che ha fatto dell’immagine il proprio scudo e la propria arma.
Riefenstahl (Berlino, 1902–2003), donna la cui rara bellezza era accompagnata da talento, coraggio e ambizione fuori dal comune, inizia la sua carriera come danzatrice e quindi attrice nei film “di montagna” degli anni Venti, per poi passare alla regia con La bella maledetta (Das blaue Licht, 1932), presentato alla prima edizione della Mostra di Venezia. L’incontro con Hitler è stato “fatale”, come ha dichiarato lei stessa, e la seduzione reciproca: capace di confermare al Führer le sue velleità artistiche, viene chiamata a documentare — o meglio celebrare — il raduno del partito nazista a Norimberga con Il trionfo della volontà (1934) e le Olimpiadi del 1936 a Berlino con Olympia, premiato, sempre a Venezia, con la “Coppa Mussolini” nel 1938. La regista operava con una messa in scena accurata, uno stile visivo innovativo e strategie di rappresentazione che avevano come scopo l’esaltazione mitica del potere nazista.
Geniale nella resa del movimento e straordinaria nel montaggio, pioniera del linguaggio cinematografico moderno, Riefenstahl ha contribuito in modo incisivo a plasmare l’immaginario del Terzo Reich, diventando — unica donna in un sistema rigidamente maschile — la più riconosciuta interprete dell’estetica nazionalsocialista.
Dopo la guerra è stata processata più volte per le sue strette relazioni con i vertici del regime, ma mai condannata. Classificata come “simpatizzante”, ha continuato a sostenere di aver svolto solo un lavoro artistico e tecnico, negando qualsiasi consapevolezza dei crimini nazisti.
Dagli anni Cinquanta in poi, Riefenstahl tenta di reinventarsi come fotografa, dedicandosi prima alla popolazione dei Nuba del Sudan e poi alla fotografia subacquea. I suoi lavori, pubblicati tra gli anni Settanta e Ottanta, celebrano la bellezza dei corpi e delle forme naturali con lo stesso sguardo estetizzante che aveva caratterizzato il suo cinema di regime, spostando i medesimi ideali in contesti esotici.
Dagli anni Sessanta, Riefenstahl avvia un lungo lavoro di autoassoluzione pubblica, culminato nelle sue memorie, Stretta nel tempo (1987), dove applica la stessa logica che guida i suoi film: selezionare, idealizzare, celebrare la bellezza, la forza muscolare, la tempra invincibile. Nel documentario la si vede affermare candidamente di aver “ripreso solo le parti positive del nazismo”, mentre scorrono le immagini di La vittoria della fede (1933), e lei che afferma “Hitler era un uomo di pace”; stessa inquadratura, con un altro oratore che urla: “Se la Germania non difenderà la razza, sarà perduta!”. Lei ribadisce con fermezza: “Non ho mai filmato nulla sulla teoria della razza”. Eppure, esistono prove fotografiche che attestano la sua presenza a fucilazioni e che ha usato come comparse ragazzi rom deportati e poi bruciati nei forni crematori.
La regista costruisce la propria narrazione come un montaggio difensivo: negazione della colpa, idealizzazione di sé, riparazione maniacale attraverso l’estetica. Nel documentario, Veiel sembra quasi sfidare Riefenstahl sul piano del montaggio, affidando proprio alla tecnica in cui lei eccelleva il compito di smontare la costruzione delle sue menzogne, rivelandone le capacità manipolatorie. La figura di Riefenstahl emerge così come emblema di una libertà solo apparente — quella dell’artista che “non sapeva” — e come esempio paradigmatico di una propaganda visiva in grado di mascherare la violenza con la bellezza. Non riuscendoci completamente, perché i bei lineamenti della regista, preservati anche in età avanzata, si alterano in smorfie di rabbia mantre il corpo, precedentemente composto, reagisce violentemente quando le vengono poste, durante le interviste, domande non gradite.
Avvalendosi di un ampio corpus di materiali, compreso l’archivio privato di Riefenstahl, Veiel costruisce un controcanto rigoroso alla sua narrazione autoassolutoria, smascherandone le falsità e le omissioni, risalendo con lucidità alle dinamiche psichiche che ne hanno alimentato la costruzione. Le radici di questo assetto psichico, suggerisce, affondano nell’infanzia: un padre autoritario e violento, una madre incrollabile, un imperativo al successo che non prevedeva la possibilità di fallire.
Si può pensare a un parallelo tra Riefenstahl e La zona d’interesse di Jonathan Glazer, vincitore del Grand Prix a Cannes 2023 e dell’Oscar 2024 come miglior film internazionale. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Martin Amis (2014), il film racconta la vita ordinaria del comandante di Auschwitz Rudolf Höss e della sua famiglia, che abitano in una villetta accanto al campo di sterminio0. L’orrore non viene mai mostrato direttamente: rimane fuori campo, evocato solo da suoni, cenere, fumo, ordini gridati. La macchina da presa insiste sui gesti quotidiani, sul giardino curato, sulla routine domestica — mentre, appena oltre il muro, si consuma l’indicibile.
È un film sull’assuefazione, sulla convivenza anestetizzata con il male, su ciò che accade quando lo sterminio sistematico e la disumanizzazione assoluta diventano sfondo e si confondono con il paesaggio.
Pur con strumenti differenti, Glazer e Veiel disarticolano la visione, ne mettono in crisi i meccanismi. Il primo lavora con il fuori campo, l’ellisse e il non visibile, rendendoli strumenti di verità. Veiel scompone il discorso di Riefenstahl attraverso il montaggio e il confronto con i film e i materiali d’archivio, mettendone in crisi la coerenza.
In entrambi i casi, il cinema diventa dispositivo di smascheramento, non tanto dei fatti quanto delle modalità con cui scegliamo — individualmente e collettivamente — di non vederli.
Come psicoanalisti, pensando a Riefenstahl, possiamo chiamare in causa il ricorso a difese narcisistiche primitive contro l’angoscia di frammentazione generata da traumatismi precoci, una dinamica di identificazione con l’aggressore, un ideale dell’Io ipertrofico, un funzionamento schizo-paranoide in cui l’altro viene catturato visivamente, dominato simbolicamente, ma non riconosciuto come soggetto.
Sono molteplici e potenti gli aspetti messi in luce da questo film che meriterebbero un’analisi approfondita, tuttavia, Veiel lascia sospeso ogni giudizio morale o tentativo diagnostico psicopatologico e anche lo spettatore è chiamato a farlo. È proprio questa sospensione che infatti permette di cogliere l’intento principale del regista: mostrare ciò che può accadere quando la bellezza viene dissociata dall’etica e posta al servizio del potere e di una visione univoca del mondo.
La riflessione sullo sguardo di Riefenstahl acquisisce una risonanza inquietante nel presente, dove la propaganda non appartiene più soltanto ai regimi autoritari, ma permea anche le democrazie occidentali. Oggi come allora, l’immagine non viene solo usata per rappresentare la realtà, ma per costruirla, e ciò che non si vuole vedere viene manipolato, oppure lasciato fuori dall’inquadratura.
Questo confronto tra estetica e responsabilità, tra negazione e svelamento, ha trovato risonanza nei discorsi emersi durante il panel e la ricca discussione con il pubblico.
Mi limito a citare il collega Davide Rosso, che ha proposto una riflessione ispirata alla teoria del campo bioniana (Bion, 1962), richiamando l’attenzione sul fatto che i social media agiscono come veri e propri “campi digitali” capaci di influenzare profondamente la psiche e l’identità degli individui. Le immagini, i messaggi e le narrazioni che vi circolano non solo modellano la percezione della realtà, ma concorrono alla formazione di ideologie collettive — come avviene, ad esempio, in occasione di elezioni politiche o movimenti sociali — dove la diffusione di fake news e contenuti polarizzanti può produrre una forma di manipolazione psicologica collettiva. In questo scenario, l’individuo appare formalmente libero, ma in realtà è immerso in un “campo” che condiziona inconsapevolmente le sue emozioni, le sue idee, la sua identità. A partire da questa analogia, Rosso ha chiesto a Veiel se il suo film possa essere letto come una sorta di prototipo anticipatore di queste dinamiche contemporanee e quale può essere, in tale contesto, il ruolo della psicoanalisi come possibile antidoto.
Veiel ha risposto che il suo non è un film sul passato o su una regista venuta a mancare ormai anni fa, ma sul futuro, che racconta quanto sia facile essere sedotti da un’estetica fascista, e quanto questa sia ancora oggi presente, in forme più o meno velate, ma comunque efficaci. Ha messo in luce il pericolo della mancanza di riconoscimento del valore normativo della verità e del bisogno delle persone di credere alle bugie. Si ripete un copione che continua a riattivarsi nel corso della Storia: l’uso sistematico della menzogna e la manipolazione dei fatti come strumento politico.
Ha sottolineato l’importanza di creare spazi di pensiero e di dibattito, specialmente tra i giovani, raccontando l’esperienza di portare il suo documentario nelle scuole, dove trova attenzione e ascolto, spesso più di quanto si aspettino docenti e genitori.
Questo gesto psico-educativo non è secondario, ma pienamente coerente con il pensiero psicoanalitico, se lo correliamo, per esempio, al celebre carteggio tra Sigmund Freud e Albert Einstein, Perché la guerra? (1932), in cui il padre della psicoanalisi afferma che solo la cultura può costituire un antidoto duraturo alla barbarie.
Contro le pulsioni distruttive e il fascino per il potere totalizzante, non è sufficiente agire sulle condizioni politiche o materiali: è necessario intervenire sulla psiche individuale e collettiva, sui legami simbolici che fondano la civiltà. Thanatos, la pulsione di morte, non può essere estinta, ma può essere sublimata, contenuta, resa eticamente intollerabile.
L’educazione, la giustizia, il rafforzamento del diritto e della coscienza collettiva diventano così strumenti essenziali per prevenire il ritorno della violenza e l’uso della propaganda.
È forse proprio qui che si gioca il compito della psicoanalisi oggi: agire come controcampo simbolico, restituendo spazio al pensiero critico, alla responsabilità e alla memoria — là dove l’estetica e il controllo della percezione rischiano di farsi ancora una volta schermo, negazione e strumento di potere.
Bibliografia
AMIS M. (2014). La zona d’interesse. Torino, Einaudi, 2015.
BION W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
FREUD S. (1932). Perché la guerra? O.S.F., 11, 263-274.
RIEFENSTAHL L. (1987). Stretta nel tempo. Storia della mia vita. Milano, Mondadori, 1995.
VONNEGUT K. (1969). Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini. Milano, Feltrinelli, 2023.
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