Il lavoro nella/della comunità psichiatrica: scorci.

di Dott. Mario Sancandi

 

Gli operatori psichiatrici costituiscono la cerniera

tra queste due realtà, quella esterna e quella psichica

Marcel Sassolas

Il tentativo che vorrei percorrere questa sera è quello di condividere alcuni pensieri sul funzionamento della comunità psichiatrica, quali ho avuto modo di formulare a partire dalla mia esperienza. Con questo voglio mettere in evidenza due aspetti: il primo è che ciò che andrò dicendo si radica nella rielaborazione della mia esperienza soggettiva; il secondo, conseguente al primo, è che essendo la rielaborazione di un’esperienza complessa, tra l’altro tutt’ora in essere, un compito interminabile, sono consapevole della parzialità delle riflessioni proposte – è questo il motivo per cui nel titolo ho preferito parlare di ‘scorci’.

Prima di addentrarmi in considerazioni per così dire più “tecniche” vorrei partire da una nota personale, che ha anche lo scopo di introdurre un’atmosfera.

Quando mi capita di raccontare che una cospicua parte del mio tempo lavorativo è impegnata nel ruolo di responsabile di una comunità psichiatrica accade spesso che l’interlocutore, specie se non è ‘del mestiere’, vada subito con la mente alla gestione delle cosiddette “crisi”: mi si chiede, cioè, come sia confrontarsi con gli agiti, con gli scompensi… insomma, con le manifestazioni più eclatanti della sofferenza psichica, associate ad un’idea di pericolo. Ed io mi trovo a pensare che seppure questi aspetti alle volte ci sono, la fatica, sul piano del vissuto personale in relazione all’esposizione all’ambiente, ha principalmente una natura molto diversa ed ha a che vedere con un certo clima, con una disposizione diffusa, che è però difficile da descrivere positivamente, in quanto si dà “in negativo”, per sottrazione.

Detto diversamente, se dovessi cercare di descrivere l’angoscia che prevalentemente circola in comunità non parlerei di un’angoscia rossa, «associata ad un atto cruento», quanto piuttosto di angoscia bianca, «che traduce la perdita subita a livello del narcisismo» (A. Green, 1980, p. 269-70).

Con questo, sia chiaro, non voglio dipingere una realtà più drammatica di quanto non sia. Questo clima, o si potrebbe forse dire con più esattezza: questo piano inclinato lungo il quale i singoli e il gruppo tendono a scivolare, costituisce piuttosto una sorta di tela di fondo sulla quale si inscrivono tuttavia una serie di movimenti vitali, che possono essere improntati al conflitto, al sostegno, alla seduzione, all’ironia, e che fanno sì che la comunità si configuri anche e al tempo stesso come un luogo caldo e, a modo suo, famigliare.

Passo ora ad alcuni aspetti ‘di inquadramento’. “Il Roveto”, la comunità dove appunto impiego parte del mio tempo lavorativo, è una comunità mista che può ospitare fino a 13 pazienti. È stata aperta nel 2004 per iniziativa della cooperativa Mamre, che ha la sua sede a poche centinaia di metri dalla comunità. Siamo dunque nell’ambito del privato sociale. Prima del mio arrivo, avvenuto nel 2016, la direzione era affidata al dottor Cesaro, che ha svolto un ruolo fondamentale nel far crescere la comunità e nello stabilire una rete di buone collaborazioni con i Servizi. Altre figure importanti nella storia della comunità sono state il dott. Dalla Porta, per anni supervisore dell’équipe, e Marcel Sassolas, molto presente nei primi anni di vita della comunità e a cui la comunità stessa deve parte del suo ‘imprinting metodologico’.

Nel corso degli anni, con il processo di autorizzazione e accreditamento previsto dalla Legge Regionale 22 del 2002 e via via perfezionato e rivisto dalle successive normative, la comunità ha dovuto trovare una propria definizione compatibile con i piani di zona dell’ULSS di appartenenza, oggi Azienda ULSS8, finendo per qualificarsi come Comunità Alloggio Estensiva.

La Comunità Alloggio Estensiva, o CAE, come si usa dire nel gergo degli addetti ai lavori, è una struttura residenziale che, come altre, si rivolge ad «adulti affetti da patologia psichiatrica, per i quali la malattia ha compromesso in maniera significativa il funzionamento personale e sociale», con diagnosi, quindi, nell’ambito «delle psicosi [prevalentemente], dei disturbi dell’umore o dei gravi disturbi di personalità» (vedi documento Definizione dei percorsi di cura… del Ministero della Salute).

A differenza di altre tipologie di comunità psichiatrica la CAE ha un profilo meno sanitario e più socio-riabilitativo[1]. Questo implica, ad esempio, che non sia prevista la figura dello psichiatra interno – la parte psichiatrica e psicofarmacologica continua a essere seguita dal CSM di appartenenza, con cui la comunità lavora a stretto contatto – e che la presenza infermieristica sia contenuta, mentre sono molto presenti le professionalità degli educatori e dei TeRP (Tecnici della Riabilitazione Psichiatrica), oltre naturalmente a quella degli operatori socio-sanitari. Su questa scia, un’altra caratteristica, che per me ha delle implicazioni importanti sulle quali vorrei soffermarmi, è che non è prevista la presenza di uno psicologo separata da quella del responsabile, come per esempio accade nelle CTRP, ma qui lo psicologo è anche il responsabile della struttura. Ciò non esclude, naturalmente, che venga svolta dell’attività clinica a favore dell’utenza, come i gruppi o i colloqui individuali, ma pone a mio parere delle questioni di setting importanti: ad esempio, si può pensare che il paziente possa scindere, e fino a che punto, i momenti in cui riceve un ascolto che si vuole ‘neutrale’, quindi equidistante da Es, Io e Super-io, da altri momenti in cui il responsabile è chiamato a rinforzare delle posizioni educative, o comunque a prendere partito rispetto a delle scelte da compiere? O ancora, che posto dare alla metafora freudiana della lastra di specchio che mostra solo ciò che le viene mostrato (cfr. Freud, 1912, p. 538) quando, al di fuori dell’attività clinica propriamente detta, l’ospite ha modo di osservare le caratteristiche personali del terapeuta e alcune peculiarità del suo stile relazionale? In modo più ampio, credo che questa doppia funzione di psicoterapeuta e responsabile ponga una questione rispetto all’identità professionale dello psicologo-psicoterapeuta impegnato in questa situazione. Su questo tornerò nel prosieguo.

Bisogna ora dare uno sguardo alle caratteristiche del dispositivo comunitario inteso come luogo di cura psichica.

La caratteristica credo fondamentale che definisce la complessità del lavoro comunitario riguarda la molteplicità e al tempo stesso la sinergia, almeno auspicata, degli elementi che lo compongono.

La vita della comunità, infatti, va considerata come un tutto: come un «teatro» – scrive Marcel Sassolas – «in cui si proietta vita psichica del paziente [e che] non è più circoscrivibile al solo studio dello psicoterapeuta, ma ingloba le strutture di cura che gli sono proposte. Ormai non è più una, ma sono diverse persone che dovranno individuare non solo ciò che il paziente sta facendo loro provare o agire in sua vece, ma anche il ruolo che fa loro svolgere nella sua trama intima proiettata fuori di sé in questo teatro della cura» (1997, p. 320-21). In comunità si opera cioè una diffrazione del transfert, e sarebbe sbagliato, a mio avviso, isolare o gerarchizzare in modo assoluto le figure, i tempi e gli spazi che compongono questo prisma. Preciso, onde evitare fraintendimenti, che ciò che sto tematizzando non è un azzeramento delle differenze. L’ospite della comunità deve infatti poter attribuire alle diverse figure delle diverse funzioni, sulla base del ruolo che ricoprono e anche della loro equazione personale (ci sarà l’operatore più accogliente, quello più educativo, e così via dicendo); deve poter verificare che i confini che demarcano le attività e i diversi momenti della giornata sono salvaguardati; così come deve aver chiaro che ci sono dei momenti, nella routine settimanale, che vengono considerati più importanti di altri. Ma la tutela delle differenze non deve far perdere di vista la fondamentale sinergia delle parti che compongono l’insieme.

Ad esempio, io credo che sarebbe sbagliato pensare che il colloquio con lo psicologo o il gruppo verbale, in comunità, siano il ‘vero e solo’ luogo della terapia, e che invece le chiacchiere fatte nei momenti non strutturati – ciò che Roussillon (1988) chiama «gli spazi interstiziali» del lavoro istituzionale – siano momenti di poco valore, o semplici riempitivi. Al contrario, può accadere che ciò che è stato smosso in momenti codificati come ‘terapeutici’ possa trovare espressione negli spazi interstiziali: durante il tempo libero l’ospite può rivolgersi all’operatore evocando un ricordo o raccontando un sogno, oppure compiere uno di quegli agiti, micro o macroscopici, che costellano la vita delle comunità. Viceversa, pensieri che si sono fatti strada nel contesto agevolato di un dialogo informale possono essere riportati nel gruppo per ricevere lì, dal conduttore e dagli altri membri, una sorta di messa agli atti. Questi sono solo degli esempi, ma stanno a indicare in che modo il dispositivo comunitario permetta e favorisca un processo rielaborativo dei contenuti coscienti ed inconsci, spesso anche al di là delle azioni specifiche che vengono intraprese in tal senso.

Compito difficile dell’équipe è quello di riconoscere, raccogliere, rilegare; ricomporre cioè la diffrazione del transfert in unità simbolizzabili e – un po’ alla volta e per diverse vie – introiettabili per i pazienti. Il compito primario dello psicoterapeuta-responsabile di struttura, almeno nel mio modo di intendere questa situazione, è a sua volta quello promuovere, facilitare ed arricchire questo funzionamento dell’équipe, coltivando una cultura condivisa e vigilando affinché il gruppo di lavoro possa mantenere un setting interno relativamente solido e costante, a fronte di un setting esterno che comprende invece una molteplicità di setting diversi tra di loro, a volte difficili da armonizzare.

Per “setting interno” intendo qui, innanzitutto, la disponibilità a sintonizzarsi sul livello dei significati latenti di tanti fatti e scambi apparentemente banali, o che rischiano di assumere un carattere solo concreto; la disponibilità, detto in altre parole, a cercare di capire qual è la posta in gioco di un dato evento o di un’interazione, all’interno di una tessitura che rimanda alle articolazioni del pensiero dell’équipe sul paziente e per il paziente, che vorrebbe essere maieutico del pensiero del paziente su sé stesso.

Per “setting esterno che comprende una molteplicità di setting” mi riferisco invece al fatto che nel concreto operare quotidiano un educatore o un OSS può passare dal condurre un’attività di gruppo alla cucina, o all’assistere un ospite nelle pratiche igieniche, con ingaggi relazionali evidentemente diversi, che devono trovare una possibilità di sintesi e di composizione. Anche lo psicologo, seppure esonerato dalla cucina o del contatto diretto con il corpo dell’altro, in comunità si relaziona agli ospiti all’interno un ventaglio di situazioni che implicano registri diversi, tali per cui l’ascolto silenzioso e benevolente non potrà essere la sua unica postura.

Presenterò ora una breve vignetta che ha lo scopo di illustrare alcuni aspetti questa complessità. Si tratta di un piccolo ritaglio di quotidianità preso tra molti simili che la vita in comunità offre in abbondanza.

Ci troviamo in sala da pranzo, abbiamo terminato il pasto e siamo in attesa che sia pronto il caffè. Alcuni ospiti vanno avanti e indietro dalla cucina e dai rispettivi bagni, ma perlopiù il gruppo è al completo. L’atmosfera è rilassata. Dialogando con un operatore, un ospite torna su una notizia che lo ha colpito, letta in mattinata nel giornale. Quest’ospite, entrato in comunità ormai diversi anni prima, si era reso protagonista di un’aggressione piuttosto preoccupante ai danni di un vicino, in un delirio paranoico che durava da tempo. Durante la prima fase del suo percorso aveva mantenuto un atteggiamento molto circospetto, con tratti rigidi e controllanti, ma da un certo punto in poi abbiamo potuto assistere ad un graduale scongelamento, tanto diventare, per gli altri ospiti, una sorta di papà-chioccia, sia pure tendenzialmente direttivo.

Parlando di un’esternazione – effettivamente bizzarra – resa da un’esponente politica (per altro della parte che lui sostiene, ciò che mi ha fatto accogliere come un segno di libertà interna la sua critica), l’ospite commenta a voce alta: “No la ze mia tuta a posto sta qua!”. Di rimbalzo gli dico, ma dico al gruppo, in modo molto colloquiale: “Beh, ma i matti non sono mica solo qua dentro…”.

E qui devo constatare che proprio nel superamento di alcune interdizioni, dell’ordine dell’invito ad un «patto denegativo» (Kaës, 2009), l’ironia – o la semplice inflessione ironica, come in questo caso – può venire in aiuto, in quanto rende tollerabili, e alle volte anche godibili, dei contenuti di per sé spiacevoli. In questo caso il fatto che sto ricordando, implicitamente, che gli inquilini di quella casa sono convenzionalmente considerati dei ‘matti’, cosa che rimanda ad esperienze e a questioni che spesso si vorrebbe fare a finta non esistessero.

L’ospite coglie al balzo la palla della complicità, e mi chiede se non sia il caso di dare al personaggio in questione “un po’ di goccette”. Io rispondo in modo interlocutorio, sempre su un registro faceto, dicendo che “Sì, potrebbe essere un’idea…”. In breve il discorso coinvolge i presenti e dà il via ad una discussione, a cui non partecipo ma alla quale assito, su quale potrebbe essere la diagnosi e il tipo di prescrizione più idonea (sempre, beninteso, per la malcapitata politica). Il clima che si crea è un po’ maniacalizzato, ma la consapevolezza della finzione fa sì che la scena non diventi grottesca, e assuma piuttosto un tono carnevalizio, anche per via del temporaneo ribaltamento delle gerarchie sociali che vi si attua. Molti ospiti prendono a raccontare dal loro punto di vista a cosa servono i diversi farmaci, evocando aspetti anche intimi della propria esperienza. L’impressione che ricavo è che in quella circostanza le rappresentazioni di parola ‘tocchino’ e ‘portino’ le rappresentazioni cosa a cui si riferiscono in un modo più vivido di quanto non sarebbe accaduto in un contesto vissuto come più formale, come ad esempio quello del gruppo.

Esaurito il momento gli ospiti si allontanano alla spicciolata, chi per fumare una sigaretta e chi per andare a prendere la summenzionata terapia.

In pochi minuti di dialogo dolce-amaro sono stati toccati e si sono mossi aspetti molto significativi per il gruppo e per i singoli. Credo si possa dire che in quel frangente, come spesso capita, la parola abbia cercato la scarica più di quanto non fosse orientata ad una reintroiezione elaborativa. Tuttavia, il fatto stesso di ‘mettere in parola’ può fungere da precursore: dei pezzettini di verità abitualmente impraticabili si sono fatti strada, e non mancheranno di ripresentarsi, direttamente o indirettamente, nei prossimi incontri del gruppo di terapia o in altri momenti strutturati, dove potranno essere trattati in maniera più elaborativa.

Perché questo processo possa svolgersi, la valenza di questi contenuti deve prima di tutto potersi inscrivere nel setting interno delle figure di cura, dove essere tenuta per il tempo necessario. Riuscire a mantenere questo setting interno anche a fronte di situazioni variabili, che a volte possono essere concitate, è, a mio modo di vedere, una delle sfide principali di questo lavoro.

Andando a concludere, vorrei avanzare un’ultima considerazione. In precedenza ho accennato al tema: analogie e differenze tra il lavoro in comunità e quello, in studio, di psicoterapeuta individuale. Si tratta naturalmente un argomento molto vasto, ma mi limiterò a un unico aspetto. Io credo che ciò che la comunità può fare per un ospite sia innanzitutto mettere a sua disposizione un ‘sito’, dove con questo termine, che riprendo da J.-L. Donnet (2005), possiamo intendere, in questo caso, la somma di: un luogo fisico, con le sue caratteristiche e gli abitanti che ci sono in quel momento; un ventaglio di attività, sancite dal Progetto di Servizio e dai PTRP (Progetti Terapeutici Riabilitativi Personalizzati), che in alternanza al tempo libero scandiscono la giornata e le settimane, e che corrispondo ad altrettanti setting esterni; e la presenza di un’équipe, dotata di differenze intrinseche ma anche, come abbiamo visto, di un setting interno che si spera sufficientemente saldo e condiviso. Questo ‘sito’ crea le condizioni per lo svolgimento di un processo. L’équipe, quando funziona bene, può avere rispetto a questo processo un ruolo di enzima, oltre a quello di testimone avveduto. Ma l’eventualità, i tempi e la direzione del processo non sono decidibili a priori e dipendono principalmente dal paziente. Questa constatazione permette di sottolineare, da un lato, le valenze soggettivanti, almeno potenziali ed auspicate, del percorso di ciascun ospite; dall’altro, e al tempo stesso, evidenzia il limite delle pretese di ‘previsione e controllo’ di suddetti percorsi, che talvolta possono essere tanto più pressanti in quanto il terzo sociale è attivamente coinvolto nel contratto di cura. Citando ancora Donnet, «Il marinaio […] sa che soltanto una preparazione, una navigazione e delle manovre molto rigorose possono conferirgli il padroneggiamento necessario al successo della sua odissea; ma sa anche che il valore dell’esperienza resta fondamentalmente legato alla sua dimensione avventurosa» (ibid., p. 31).

Mi sembra che, tra le molte e macroscopiche differenze tra i due tipi di lavoro, questa posizione in cui si trova l’équipe presenti dei tratti in comune con quella dello psicoterapeuta che accoglie nel proprio studio un paziente.

 

 

Bibliografia

Donnet J.-L. (2005), La situation analysante, P.U.F., Paris.

Freud S. (1912), Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, OSF, 6, Bollati Boringhieri, Torino.

Green A. (1980), La madre morta, in Id. (1893), Narcisismo di vita e narcisismo di morte, Borla, Roma, 2005.

Kaës R. (2009), Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010.

Roussillon R. (1988), Spazi e pratiche istituzionali. Il ripostiglio e l’interstizio, in Aa. Vv., L’istituzione e le istituzioni, Borla, Roma, 1991.

Sassolas M. (1997), Terapia delle psicosi. La funzione curante in psichiatria, Borla, Roma, 2004.

Sassolas M. (2012), La funzione curante in psichiatria alla luce dei concetti di Paul-Claude Racamier, in “Gruppi”, 2, 55-67.

 

Normative e linee guida

L.R. della Regione Veneto n. 22 del 16 agosto 2002, disponibile su internet.

Per i successivi aggiornamenti vedi sito regione Veneto.

 

Le Strutture Residenziali Psichiatriche in età adulta, documento operativo del PANSM, approvato in Conferenza unificata con l’accordo n. 116 del 17 ottobre 2013, disponibile su internet.

 

Definizione dei percorsi di cura da attivare nei Dipartimenti di Salute Mentale per i disturbi schizofrenici, i disturbi dell’umore e i disturbi gravi di personalità, documento del Ministero della Salute approvato in Conferenza unificata il 13 novembre 2014, disponibile su internet.

 

D.G.R. della Regione Veneto n. 1673 del 12 novembre 2018, disponibile su internet.

 

NOTE:

[1] Per un approfondimento di cosa si intenda per “profilo socio-riabilitativo” rimando al documento Le Strutture Residenziali Psichiatriche in età adulta approvato dalla Conferenza unificata, alla voce Struttura Residenziale Psichiatrica di tipo 3.1. Per i criteri di inclusione/esclusione dell’utenza delle CAE rimando invece alla più recente D.G.R. n. 1673/2018 della Regione Veneto.

Mario Sancandi, Padova

 

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