Le città di pianura

di Elisabetta Facella

Titolo del film: “Le città di pianura”

Dati sul film: regia di Francesco Sossai, Italia, 2025, 98′

Genere: commedia, drammatico

Link al Trailer

“Le città di pianura” è una piacevole stranezza, presentato allo scorso festival di Cannes nella Sezione Un Certain Regard.

È un film moderatamente fuori dai canoni, che racconta qualcosa che evidentemente il regista bellunese Francesco Sossai, classe 1989, conosce benissimo: il nord-est italiano, come mood e stile di vita. È un’opera sulla forza delle relazioni umane – l’amicizia maschile in primis –, ma che è anche attraversato da riflessioni di matrice storica, generazionale, civica e sociale. Si sviluppa attraverso diversi livelli narrativi, dal particolare all’universale: proverò ad accennarne alcuni.

Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla, noto anche come frontman del “Teatro degli Orrori”) sono due cinquantenni, amici di lunga data, uniti da uno stile di vita precario. Sono quasi costantemente alterati dall’alcool e passano dall’ultimo bicchiere all’ultima ombra, trascinando lo spettatore in atmosfere di contagiosa euforia. Il tutto inizia con il tentativo, fallito, di andare a prendere un vecchio amico, il Genio (Andrea Pennacchi), in aereoporto, al suo ritorno dall’Argentina, figura chiave per comprendere il passato dei personaggi. A quel punto i due cominciano a girare senza una meta precisa, trasportati dai ricordi e dalla nostalgia, e dal bisogno compulsivo di “bere l’ultimo”.

Si imbattono così in un giovane studente napoletano di architettura, Giulio (Filippo Scotti), che viene coinvolto, all’inizio suo malgrado, nei loro giri. I tre attraversano il Veneto delle campagne e dei paesini, in un caos narrativo coinvolgente e mai noioso. I due amici trascinano lo studente e gli spettatori in un vortice perpetuo tra un altro bicchierino, un “bacaro tour”, un ultimo giro della staffa, fino ad arrivare a una villa veneta in cui si fingono tutti architetti, con un riuscito ammiccamento alle atmosfere di “Amici miei” (Monicelli, 1975). Giulio, inizialmente infastidito e irrigidito dal contatto con l’inesorabile forza dei due amici di cogliere ogni occasione per far festa, inizia poco a poco a lasciarsi coinvolgere dalla loro molesta capacità di stare nella vita, alimentata dall’alcol, funzionale a uno stile di vita piacevolmente alterato, leggero.

I due cinquantenni sono una perfetta rappresentazione di “adultescenti,” neologismo (traduzione italiana di kidult[1]) che racconta di adulti, dal punto di vista anagrafico, che faticano ad assumersi le responsabilità e continuano a condurre una vita all’insegna dello svago e dell’impulsività. In una scena del film l’anziano padre chiede ai due: “Ma voi non crescete mai?” E si sente rispondere “Siamo troppo grandi per crescere”. Allo stesso tempo l’incontro con Carlobianchi e Doriano rappresenta per lo studente un’occasione di prendere coraggio nella vita e buttarsi, non rimandando all’infinito di scegliere una direzione.

I luoghi, i paesaggi, le atmosfere sono indubbiamente protagonisti insieme ai personaggi e alle vicende narrate. Questo film richiama alla memoria lo spaesamento geografico così ben descritto nel “Bestiario Veneto” di Paolini (1999): “Un’unica grande città — tanti comuni — tante periferie-tanti sindaci, in realtà nessun centro, nessuna periferia …Tutto che gira, che gira, che gira”. Una terra senza centro e senza mappa (tant’è che i protagonisti in una scena se la devono inventare), che è solo strada, infrastruttura, (“l’autostrada Lisbona – Treviso – Budapest”evocata ma non riconosciuta come reale), in cui tutti si muovono di continuo, sempre in macchina, senza andare da nessuna parte. Anche l’”Atlante dei Classici Padani” (Minelli e Galesi, 2015) ha messo in mostra l’estetica della Pianura Padana, con le sue continue rotatorie: “L’equilibrio tra esaltazione e depressione è costantemente perseguito nella Piana, raggiungibile secondo alcune scuole di pensiero dimenandosi in circolo nel diametro di una rotatoria” (p. 159).

Le donne in questo film sono per lo più assenti e riducibili alla contrapposizione donna/prostituta o donna/cuoca. Nei dialoghi ci sono racconti mitici delle prostitute legali di Villach; in alternativa, le donne sono quelle che ti accolgono dopo giorni di bagordi ininterrotti per dormire e bere al mattino un caffè “corretto prugna”. Altra traccia di femminilità consiste nell’allusione a un posto mitico nella memoria dei due amici “dalla Mary a mangiare le lumache in umido con la polenta”. Un luogo magico, come una Madeleine proustiana, che diventa ad un certo punto denso di nostalgia, quando si scopre il ristorante non esiste più, proprio come c’è il rischio che un domani, se non già oggi, non esista più il mondo per come l’hanno conosciuto i due amici. Un passato che attira ma che fa male, proprio come il cocktail di gamberetti anni ’80 sul quale Doriano si butta a capofitto una volta ritrovato: la perdita e la nostalgia per qualcosa che si è perso è ben raccontato in questo film. Quando torna il terzo amico Genio, fuggito anni prima in Sudamerica, è evidente come il loro legame non esista più: a mala pena parla coi due amici, qualcosa è inesorabilmente finito o cambiato. In un passaggio del film, il trio visita anche la tomba Brion di Carlo Scarpa, in un’atmosfera meno eccitata e alterata e più riflessiva. Il giovane studente in un dialogo con questi strambi compagni di viaggio ipotizza che questo sia un luogo appositamente progettato da Scarpa per elaborare il lutto.

 

[1]  Siamo in un’epoca di bambini-adulti e adulti-bambini –  Accademia della crusca

In filigrana, questa pellicola affronta anche tematiche politiche. C’è l’operaio fedele tutta la vita all’azienda cui, trattandolo fintamente come uno di famiglia, l’ultimo giorno di lavoro il padrone arrivato in elicottero (Roberto Citran) gli consegna un Rolex d’oro, che terrà al polso anche quando poi finirà a bruciarsi la pensione alle slot machine.

Alla retorica della figura del paron, archetipo veneto dell’impresa familiare diventata multinazionale, sono contrapposti i tre amici, Carlobianchi, Doriano e Genio, che mettono in piedi una truffa che profuma di esproprio proletario alla stessa azienda.

Le città di pianura sono effettivamente presenti solo nel titolo di questo film, nessuna città veneta è davvero rappresentata, ogni scena si svolge nei collegamenti, nello spazio interstiziale generico dei bar, dei parcheggi, degli svincoli stradali in un tentativo di esprimere un’universale periferia urbana.

Un interrogativo misterioso permea la trama dal principio alla fine: i due amici da ubriachi sono convinti di aver scoperto il segreto del mondo e di averlo però subito dimenticato. Giulio chiede loro: “Ma è il segreto del mondo mondo o del vostro mondo? E che differenza c’è?”.

  

 

 

 

Bibliografia

 

Minelli F., Galesi E. (2015). Atlante dei Classici Padani (2015). Krisis Publishing, Brescia

Paolini M. (1999). Bestiario Veneto. Biblioteca dell’immagine, Pordenone

Elisabetta Facella, Padova 

Centro Veneto di Psicoanalisi

elisabettafacella@yahoo.it

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