La rabbia del vento

Recensione di Marina Montagnini

La rabbia del vento (1949)

S. Yizhar 

 2005, Einaudi Editore, Torino

pagg. 86

“Se Auschwitz non è riuscito a eliminare l’ingiustizia, cosa potrà riuscirci?”

 (Elie Wiesel, dalla quarta di copertina, Einaudi)

 

 

Desidero iniziare questa recensione riportando il salmo 137, nella traduzione di Guido Ceronetti (1985) di cui trascrivo anche due note che aiutano a capire la straordinaria condensazione di significati del salmo.

Le note fanno parte integrante della lettura tradotta e meditata da Ceronetti per cui le aggiungo alla fine del salmo, quasi in diretta continuità. Il salmo e le note sono una premessa alla recensione del libro La rabbia del vento (Yizhar, 1949) perché ci introduce al tema dell’esilio, dell’esodo forzato, con quello stato d’animo di strazio e orrore che mi pare necessario per una lettura profonda che parli davvero a noi psicoanalisti.

Yizhar Smilansky nacque da una famiglia di scrittori che, dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si trasferì a Tel Aviv. Yizhar prestò servizio come ufficiale dei servizi segreti nelle Forze di Difesa Israeliane durante la guerra arabo-israeliana del 1948 e venne eletto nella Knesset. Dalla fine degli anni Trenta agli anni
Cinquanta, Yizhar pubblicò brevi novelle. Nel 1949 diede alle stampe
Khirbet Khizeh (La rabbia del vento nella edizione italiana) in cui descriveva l’espulsione degli arabi palestinesi dal loro villaggio immaginario, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Nonostante le accese polemiche suscitate, il racconto divenne un best-seller e nel 1964 fu incluso nel programma scolastico delle scuole superiori israeliane. Nel 1978 sorse una controversia dopo che una drammatizzazione di Khirbet Khizeh da parte del regista Ram Loevy fu trasmessa dalla televisione israeliana. Sebbene la pubblicazione della novella  fosse avvenuta decenni prima, le polemiche si riaccesero, centrate sul presunto ‘peccato originale’ dello Stato di Israele.

Nonostante il tempo trascorso, le questioni sollevate sono ancora attualissime.

 

 

Salmo 137

 

Sedevamo per piangere laggiù

Col pensiero a Sion

Sui fiumi di Babel!

 

Dai pioppi i nostri liuti

Dondolavano lungo le rive

 

Pretendevano cantassimo

I nostri carcerieri!

Incitavano ad allietarli

Mentre i tormenti ne pativamo

 

-Su cantate per noi

Un canto di Sion!-

-Come cantare un canto del Signore

Su questo suolo ignoto?-    nota1

 

Mi scordassi di te Gerusalemme

La mano mia dimentichi che è mia!

Se tu svanissi dal mio ricordo

Se tu cessassi di ogni mia gioia

Essere cima Ierushalem

Che al mio palato la lingua s’impicchi!

 

Ricordalo Signore

-Giù! Buttatela giù!

Radete al suolo tutto!-

Era il grido dei figli di Edom

L’ultimo giorno di Ierushalem

 

O sterminanda Sterminatrice!    nota2

Beato chi di ogni male

Figlia di Babilonia

Ti pagherà il taglione!

Beato chi su dei sassi

Pigliando i tuoi lattanti

Te li sfracellerà!

 

Di seguito le due note di Ceronetti:

 

nota 1) La richiesta di canzoni sacre, in mezzo al rito sacro del lutto e del ricordo, è profanazione. Di qui la replica collettiva dei piangenti. Da approfondire il senso di ‘AL ADAMAT-NEKHAR, visto semplicemente come “in terra straniera”. L’uso di adamah esclude che si alluda al paese straniero: si tratta proprio del suolo, del terreno, di una materia considerata senza nome, un non-luogo. L’esiliato ne conosce il nome geografico. Ma gli nega la consistenza, la realtà, il poter essere madre di qualcuno: nekhar più che straniero è l’ignoto, terra sconosciuta, terra che non ha identità, che ci si rifiuta di ammettere come una terra: dove è impossibile (perciò il rifiuto è ben motivato) cantare un canto del Signore. Il suolo è inadatto, non è quello… Si può anche intendere: su un suolo a lui (al Signore) ignoto, estraneo. Noi pensiamo ai nostri cambiamenti di patria, al paese straniero, ma qui si tratta d’altro, più simile all’opposizione tra il carcere e la casa, tra un luogo dove non si è e uno dove si era.

 

nota 2) ‘EL HASSALA’, ad petram, sul sasso, o la rupe o il macigno, o le mura abbattute, sformata pietra; en piedras sin piedad despedazare (Fray Luis de Leon). Babilonia incarnando il Male, tutto il suo sangue deve essere spento. Invece dei canti richiesti un grido estatico di violenza sfrenata, preparato dal crescendo del pianto rituale: vedrei tutto il salmo come un unico blocco, in progressione, dal pianto seduto al furore convulsamente mimato; dove c’è rito c’è placamento; è sacra rappresentazione. Le nostre mani, nel meditarlo, potranno rafforzarsi nella compassione, a patto di accogliere figuratamente la formidabile Beatitudine come una prescrizione a noi stessi di rinunce implacabili, di estirpazione radicale del male dell’Io.

 

Riprendo le mie personali riflessioni, per poi arrivare al libro che desidero recensire. Il libro di Yizhar mi ha colpito con gli stessi moti di dolore e orrore che provo leggendo il salmo.

Il salmo 137 è il più noto salmo degli Ebrei esuli, deportati tra il Tigri e l’Eufrate.

Nel Pianto Rituale si inserisce la maledizione, secondo la legge del taglione, con l’immagine raccapricciante dei lattanti sfracellati ad petram. Ceronetti non può ammorbidirne la portata, nemmeno suggerendo che chi taglia è il primo ad offrire il collo ad un taglio analogo, che strappi dal proprio intimo il male radicale.

“E quando maledico, io caporale nell’esercito dei perfetti,/ rischio la testa per la prima/ perché maledico me stessa, / perché se maledico i malefici/ certo porgo il collo al colpo/ al colpo della Tua scure ghigliottina,/ alla lama della Tua spada a doppio taglio” (Montagnini, 2019, 32).

 

A questo salmo degli esuli mi ha portato una parola che mi ha fatto sussultare dolorosamente: “Pezzi”. Tramite una consapevole o inconscia identificazione con l’aggressore (Ferenczi, 1958), lo scrittore, Yizhar, ha incorporato la parola più abbietta del nazismo?

Non è Rudolf Hoss, comandante ad Auschwitz, che parla, del resto sempre ‘adeguatamente’, ‘coscienziosamente’ preoccupato di non riuscire a smaltire tutti i “pezzi” prodotti dal campo di concentramento che dirige (1958). Non è Klemperer nel suo attento reportage sulla deriva del linguaggio nel terzo Reich: “pezzi”, Stück”, “cadaveri” ma in senso traslato “ebrei prigionieri”: – … una guardiana del lagher dichiara davanti al tribunale militare di aver avuto a che fare in questo o in quel giorno solo con sedici “pezzi”, cioè prigionieri. E’ lo stesso processo che trova espressione nel termine burocratico di “riutilizzo di corpi morti” o meglio nella sua estensione agli esseri umani: dei morti nei lagher si fa concime e si impiega la stessa definizione usata per l’utilizzazione delle carogne animali – (Klemperer, 1947, 190).

 

Chi parla allora? Un soldato Israeliano: – “Quanti pezzi avete raccolto?” Chiese uno di loro, dicendo la parola “pezzi” in modo spocchioso, compiacendosi del suo atteggiamento da brigante spietato.

“I nostri sono questi” disse Yehuda senza rivolgere loro uno sguardo ma indicandoli con la testa e scuotendo una scatola di fiammiferi con cui stava per accendersi una sigaretta._- (Yizhar, 1949, 90, 91).

Parla un soldato Israeliano e si riferisce ai prigionieri Arabi raccolti dal villaggio occupato da cui i prigionieri saranno sradicati ed esiliati. La scena si svolge nel 1949 o forse prima, subito dopo la proclamazione di Israele.

In una bella giornata di sole invernale, quando la polvere malefica e pulciosa di quei luoghi si riveste di verdi chiaroscuri, un plotone di soldati Israeliani, trasognati dalla “gita”, precocemente veterani di guerra, procede ad eseguire l’ordine di occupare un villaggio arabo. Si tratta di ripulirlo dagli “elementi ostili”, di incendiare, far esplodere, radere al suolo, il villaggio, circondato da terre fertili e ben coltivate da secoli di buona competenza contadina. Il villaggio sembra deserto ma le casette di fango, i muri imbiancati a calce, gli utensili abbandonati dicono il silenzio che accusa, la tragedia senza rimedio, la revoca, il tempo rovesciato, il mai più, la resa alla inutilità senza ritorno. Un po’ alla volta compaiono a stento, uno ad uno, gli abitanti che non hanno potuto fuggire, si infoltiscono, diventano un gruppo derelitto, spaesato, incredulo della fine.

 

“…e tutti quei ciechi, zoppi, vecchi, deboli, donne, bambini, ricordavano un passo della Bibbia in cui si raccontava qualcosa di simile (non ricordo esattamente dove), e con questa reminiscenza biblica che ci pesava sull’animo arrivammo a una radura al centro della quale troneggiava un albero di sicomoro dalle ampie fronde e lì sotto, seduti vedemmo riuniti gli abitanti del villaggio” (Ibidem, 105, 106)

La voce narrante è di un soldato tormentato che non è in sintonia con gli ordini ricevuti ma non trova interlocutori tra i suoi compagni. Vorrebbe andare a casa, tremenda nostalgia, lasciare agli altri compagni ‘il lavoro sporco’, pensare ad altro, lasciare ai suoi abitanti quel villaggio su cui non può accampare diritti. Intreccia un dialogo con il suo comandante, Moyshe, riesce a dire tutto il suo disagio ma l’altro lo consola affettuosamente trattandolo come un blando caso clinico, innocuo nel suo vano malessere.

Passi, processioni, umile deferenza dei vinti, pozzanghere da attraversare, preghiere, si levano sospiri, lamenti, una donna disperata sorpassa il limite della prudenza, urla, incurante ormai di ogni pericolo, vecchie decrepite, una fila di ciechi, ognuno  appoggiato alla spalla di chi lo precede, qualcuno spera ancora che tutto sia reversibile, recuperabile, ma la donna che ha visto esplodere la sua casa ha capito d’un tratto che il tempo si è spezzato e si spalanca la consapevolezza dell’esilio senza ritorno.

Il soldato tormentato sente che la catastrofe biblica è fatta di quella stessa resa inconsolabile e sente che risuonano i passi, le processioni, i pianti, degli esuli del salmo 137, e su di lui si stende una profezia di sventura, una solitudine cupa, una noia senza sollievo, senza redenzione.

C’era un altro uomo lì accanto, che disegnava con il dito nella sabbia linee perpendicolari, curve o intrecciate, ripassando su quei tratti con una distrazione che altro non è che un particolare tipo di concentrazione, e non era difficile interpretare in quegli scarabocchi le parole di un essere umano oppresso” (Ibidem, 125).

Inconsapevolmente il soldato ebreo descrive nel gruppo dei prigionieri l’uomo-che- scrive-nella-sabbia e a chi conosce il Vangelo non può sfuggire una strana analogia.

Ma è tempo di chiudere la ‘gita’:

Intorno era silenzio, e di lì a poco si sarebbe chiuso anche sull’ultimo cerchio. E quando avesse avvolto tutto, e nessuno ne avesse disturbato la calma, e al di là di esso ci fosse solo un brusio sommesso, allora Dio sarebbe sceso nella valle e vi avrebbe vagato per vedere se il grido giunto fino a lui era davvero così grande” (Ibidem, 163).

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Ceronetti G (1985) Il libro dei Salmi. Milano: Adelphi.

 

Ferenczi S (1958). Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2011.

 

Höss R (1958). Comandante ad Auschwitz. Torino: Einaudi, 1997.

 

Yizhar S (1949). La rabbia del vento. Torino: Einaudi, 2005.

 

Klemperer V (1947). LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo. Firenze: Giuntina, 2008.

 

Montagnini M (2019). Poesie per l’esercito dei Perfetti. Mestre-Venezia: Poesie auto-editate.

 

Wiesel E (2019). Il mondo sapeva. La Shoah e il nuovo millennio. Firenze: Giuntina.

 

 

Marina Montagnini, Venezia

Centro Veneto di Psicoanalisi

 m.montagnini@iol.it

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