Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Silvia Mondini
Questi pensieri sulla pittura di Chiara Coltro nascono da un amichevole gioco. Il caso – o forse qualcosa di più sottile – ha voluto che la conoscessi prima come persona e solo in seguito come pittrice. Per questo, ogni volta che osservo una sua opera, non posso fare a meno di ricordare il suo sguardo: uno sguardo distratto e al contempo attento, capace di cogliere in ciò che la circonda, un elemento inafferrabile che – da solo – le consente di condividere con chi le sta accanto qualcosa che va oltre il reale. Da questo sguardo nasce la sua pittura e il mio desiderio di tratteggiare un ritratto del suo percorso creativo.
Un ritratto in movimento, che tenta di seguire le traiettorie del suo lavoro nel tempo, lasciandosi guidare da una chiave di lettura che mi è familiare: quella psicoanalitica.
Non si tratta però di applicare teorie, scovare simboli o proporre interpretazioni quanto di sostare nella sua pittura come se si trattasse di un sogno da cui emerge una forza silenziosa e dirompente; una traccia, un frammento, una scena che origina dal suo dipinto e che, in qualche modo, mi appartiene, sino a intrecciarsi con esperienze, pensieri, teorie che il tempo ha depositato in me.
Sostando in questo intreccio di esperienze, pensieri e letture ho iniziato a pensare che il primo atto pittorico di Chiara Coltro sia lo sguardo. Quello sguardo capace di estrarre il particolare dal generale, di isolare una forma o un dettaglio dal suo insieme per far apparire altro. In questo primo atto, un atto pre-pittorico (Deleuze, 1981), qualcosa inizia già a mutare. Lo sguardo non restituisce ciò che è, ma coglie ciò che potrebbe essere (stato): una traccia, un’apparizione, un desiderio, un’illusione.
Ma Chiara Coltro non si limita a vedere. Fa vedere. E in questo secondo gesto, più propriamente pittorico, si manifesta la sua capacità di rendere visibile l’invisibile (Ibid). Le sue tele, infatti, non raccontano una scena, non illustrano un soggetto. Seguono, piuttosto, quella che Gilles Deleuze – riflettendo su Cezanne, Bacon e molti grandi del Novecento – ha definito la logica del fatto pittorico: non più rappresentare il visibile, ma mostrare ciò che normalmente non si lascia vedere – forze, intensità, vibrazioni a partire dal colore. La sua pittura non racconta, non descrive. Mostra. Mostra ciò che normalmente sfugge allo sguardo, ciò che vibra sopra o sotto la superficie delle cose, tra combinazioni e trasparenze cromatiche
Nelle sue opere, il colore, diventa campo di tensione, segnale, soglia, evento grazie al passaggio dal caos in esso contenuto all’emergere del fatto pittorico. Deleuze scrive che il colore “non è più legato alla forma” ma “sprigiona forze” e apre lo spazio. Nei quadri di Coltro l’astrazione non è mai assoluta, al suo interno si intravedono presenze, memorie, fantasmi. La rappresentazione si dissolve in una trama di vibrazioni luminose che trasforma il dipinto in soglia tra mondi e tempi diversi.
Un invito, dunque, a sostare in uno spazio intermedio – tra interno ed esterno, tra corpo e psiche, tra visibile e invisibile – dove lo sguardo diviene strumento per avvicinarsi a ciò che sfugge alla percezione. Qualcosa che può riguardare tanto l’emergere di un’immagine interna (al quadro o a noi stessi) quanto la percezione del tempo. Qualcosa che, in ogni caso, è insito nel processo creativo.
Un processo che Coltro racconta così: “C’è un primo momento in cui, con un gesto quasi istintivo, stendo i colori sulla tela e li lascio decantare per un tempo imprecisato, mesi, talora, anche anni. Poi, d’un tratto torno. Riapro quel gesto, quel dialogo interrotto e comincio a lavorare per strati di stesure a olio. Continuo a lavorare finché raggiungo un risultato che mi soddisfa, che esprime qualcosa che ha a che fare con quello che in quel momento sento. In genere, mi fermo quando avverto che è avvenuta quella “sublimazione” che mitiga, trasforma l’eccesso dell’inizio in qualcosa di impalpabile, etereo, meditato, magico. Io penso che tutto quello che accade e che sfugge alla spiegazione abbia a che fare con ciò che chiamiamo magia; una magia che per me ha a che fare con la mia sensazione di essere tutt’uno con quello che mi circonda”.
Molte riflessioni si potrebbero fare su questa descrizione che, in poche frasi, contiene un insieme di inconsapevoli riferimenti psicoanalitici: il passaggio dalla scarica pulsionale al pensiero, il tempo psichico, il processo di sublimazione. Ciò che conta, qui, è osservare come ogni tela sia attraversata da un tempo compositivo che non è lineare ma psichico: un tempo che accumula, sedimenta, cancella, riprende.
Un tempo che – come ha descritto Freud ne Il disagio della civiltà (1929) – appartiene all’apparato psichico stesso, in cui tutte le epoche coesistono, in cui nulla è mai davvero perduto poiché ogni strato è memoria e, insieme, apertura. In cui ogni traccia lascia un’impronta visibile o nascosta e ogni superficie reca l’eco di ciò che l’ha preceduta.
“Nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi, tutto in qualche modo si conserva e, in circostanze opportune, […] ogni cosa può essere riportata alla luce” (Freud, 1929, p. 562).
Nella psiche “nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, […] accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le precedenti”. (Freud, 1929, p.563).
E proprio perché la psiche funziona in questo modo, Coltro, ultimamente ha preso coraggio e ha deciso di esporre il primo tempo dei suoi quadri. Grandi tele (o teleri, come si diceva una volta) in cui viene svelata l’iniziale stesura di colore, quella gestuale, immediata, corporea, quella che finora è sempre rimasta/stata nascosta in attesa del processo di sublimazione. Un coraggio che lei fa derivare dalla performance live, una pratica iniziata da poco e che le restituito il piacere fisico del dipingere.
“Esporre il momento iniziale per me è un punto di arrivo, è il mio gesto originario da cui ha origine tutto il resto. Entra in azione il corpo, la carne, da cui poi prende forma l’aspetto sublimato, meditativo, ritorna in scena la pittura fisica, immersiva, quella che poi nel tempo si stratifica, si trasforma, si spiritualizza”.
Eppure, tra questi estremi – la fisicità del gesto e la costruzione lenta – non c’è opposizione, ma tensione viva. Ogni strato, ogni stesura di colore, è al tempo stesso memoria e apertura. La pittura si fa così metafora del tempo psichico: ogni gesto lascia un’impronta, visibile o sotterranea, come nei sogni, come nei sintomi.
C’è, in questa dinamica, una traccia dell’origine/originario a cui l’artista dà forma attraverso un sentire. Un sentire che l’artista stessa descrive come “appartenere a più universi, essere in comunicazione con tutto”. È il pensiero magico, non come superstizione, ma come apertura all’Altro, all’invisibile. Freud, nel Disagio della civiltà, ha legato questa dimensione all’esperienza infantile dell’essere tutt’uno con l’ambiente originario: un’esperienza che sopravvive nella religione, nella magia, nell’arte.
Così, tra stratificazione e rivelazione, tra memoria e materia, tra corpo e soglia, la pittura di Chiara Coltro si fa gesto generativo. Non rappresenta il mondo, ma lo interroga. Non dice, ma fa sentire. Non mostra un volto, ma lo fa affiorare. E in questo gesto, in questo enigma, accade l’incontro.
Bibliografia
Deleuze G. (1981). Sulla pittura. Corso marzo-giugno 1981. Einaudi Editori, Torino, 2024.
Freud S. (1929). Il disagio della civiltà. O.S.F. vol. 10.
Silvia Mondini, Padova
Centro Veneto di Psicoanalisi
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