Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
Presentazione di Anna Cordioli
L’opera di Hannah Arendt “La banalità del male” (1963) mostrò come fatti di estrema crudeltà, durante il nazismo, erano stati realizzati anche da menti vuote, semplicemente prive di pensiero critico.
Su di esse aveva fatto presa l’escalation della cosiddetta “guerra al terrore”, un sistema paranoide auto-propagandistico, che aveva costruito nella mente della maggioranza un mondo colmo di stereotipi degradanti.
Milioni di persone vennero così disumanizzate, fino ad essere identificate con “Lebensunwerten Lebens” (vite non degne di essere vissute).
Quando la maggioranza la pensa così, ogni crimine è infine possibile.
La propaganda si basa sempre sul creare narrazioni spicciole, che strutturino nelle menti semplici, o ignoranti, una visione del mondo manicheo, in cui il male e il bene siano nettamente distinti (diremmo scissi), esasperando il conflitto con minacce fisiche o morali e, in fine, offrendo “soluzioni” che si basano sulla scarica dell’aggressività.
La risata, e per l’esattezza lo sfottò, è un noto strumento di propaganda, proprio perchè permette una scarica pulsionale veloce. Come sostiene Pisanty (2022) è necessario studiare l’utilizzo della risata nei processi di propaganda. E’ proprio attraverso la svalutazione, lo sfottò e il richiamo alla goliardia che si apre la strada ad un particolare governo delle masse. un governo basato in fondo sulla banalità del male.
A nessuno piace pensare di essere esposto a questo tipo di manipolazione eppure tutto sta riaccadendo, come cento anni fa, e di nuovo avviene con velocità impressionante.
Oggi, ci ritroviamo ad osservare gli stessi processi che studiò Anna Arendt.
Ma se (forse) si sono creati degli anticorpi sociali in grado di riconoscere la propaganda contro le persone ebree, per altre minoranze la storia si ripete intonsa: nel dopoguerra si è steso un drammatico oblio su ciò che era capitato a molte minoranze perseguitate e questo ha reso impossibile un lavoro profondo sulla crudeltà della società. Va ricordato, infatti, che le crudeltà furono permesse dalla maggioranza prima ancora che agite.
Cento anni fa le prime persone colpite dalla propaganda di disumanizzazione, basata su paranoia e scherno, furono le persone queer. Oggi è lo stesso.
Osservando questa inquietante coazione, abbiamo chiesto all’editore Ombre Corte di poter ri-pubblicare sul nostro sito un articolo apparso nel testo collettaneo “Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo” a cura del Circolo Pink di Verona.
Il libro, edito nel 2002, è un gioiello della memoria e contiene molti saggi storici che cercano, appunto, di bucare il silenzio, l’oblio gommoso, caduto sulle vicende delle persone omosessuali e trans, nel ‘900.
Abbiamo, in particolar modo chiesto di poter far conoscere l’articolo “Come si costruisce uno stereotipo. La rappresentazione degli omosessuali ne “L’Italiano” di Leo Longanesi (1926-1929)” di Dario Petrosino. E’ un saggio storico che mostra i passaggi e i meccanismi attraverso cui la stampa filo-fascista parlava degli omosessuali e delle persone queer, creando e diffondendo stereotipi basati sullo scherno, la deformazione della realtà ed esercitando quella che Martha Nussbaum (2010) chiama la “politica del disgusto”.
E’ necessario confrontarsi con la memoria e con la storia per accorgersi di quanto i crimini vengano sempre preparati per tempo, spostando il confine di ciò che la maggioranza considera accettabile.
Leggendo l’articolo di Petrosino sembra di aprire certe pagine di Facebook del 2025.
Ringraziamo ancora l’editore Ombre Corte, il Circolo Pink e l’autore per questo potente specchio dei tempi.
Bibliografia
Arendt H. (1963) La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme. Milano, Edizioni Feltrinelli.
Pisanty V. (2022) La Risata Fascista. Milano, Fondazione Feltrinelli.
Nussbaum M. (2010). Dal disgusto all’umanità. L’orientamento sessuale di fronte alla legge. Milano: Il Saggiatore, 2011.
Per citare questo Articolo:
Petrosino D. (2002) “Come si costruisce uno stereotipo. La rappresentazione degli omosessuali ne “L’Italiano” di Leo Longanesi (1926-1929)” in Circolo Pink ( a Cura di)( 2002) “Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo.” Ombre Corte, Verona. pp.49-63.
E’ possibile scaricare il PDF dell’articolo. Nel file vengono rispettate le pagine come nella versione originale.
di Dario Petrosino
Introduzione
Quando il fascismo giunse al potere, nel 1922, dovette subito affrontare una lunga serie di problemi irrisolti, sia sul piano politico, sia su quello economico e sociale: gli stessi che erano stati la causa dell’indebolimento della società liberale italiana. Tra i problemi meno noti che turbavano la serenità degli Italiani vi era, ormai da lungo tempo, il problema della morale sessuale.
Certo, all’indomani di una guerra mondiale, con l’Italia in crisi economica e percorsa da moti popolari, la sessualità non era il primo dei pensieri. Tuttavia esso non era assente dalla mente di quelli che sarebbero stati gli organizzatori dello stato fascista. Essi potevano contare su di una nutrita bibliografia in materia, tutta orientata in difesa della famiglia e della sanità della stirpe, o della razza. Il fascismo raccolse semplicemente queste istanze e le tradusse in progetto sociale e politico.
Col progressivo trasformarsi in regime, il fascismo operò in maniera sempre più pressante per la vittoria di modelli maschili e femminili che si confacessero ai ruoli tradizionali degli uomini e delle donne, seppur visti in un’epoca moderna. Il fascismo rielaborò anche lo stereotipo dell’omosessuale, già presente nella cultura italiana, sia rafforzando i cliché già esistenti, sia creandone di nuovi, più corrispondenti all’opinione più comune in quegli anni[ii].
Prima però che il fascismo tentasse di darne una connotazione razzista, l’omosessualità era stata citata nella stampa del Ventennio con toni sprezzanti e con una frequenza tuttavia resa minore dalla censura del regime; ciò, comunque, non diminuiva la forza dell’attacco sferrato dalla cultura dominante nei confronti di una pratica sessuale che veniva disinvoltamente equiparata a un crimine[iii].
La ridicolizzazione delle abitudini degli omosessuali non era certo una novità in Italia, come pure in Europa. Dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti si era verificato un continuo crescendo su questo tema. In particolare, dopo la prima guerra mondiale, le grida a favore della tutela della morale sessuale si erano fatte più forti, in risposta a una maggiore divulgazione, in Italia, della psicoanalisi e della sessuologia.
Insieme alle riviste scientifiche si cominciava però a creare una nutrita schiera di opere di letteratura che manifestava il proprio consenso nei confronti dell’omosessualità. Dalla letteratura d’evasione alla satira il passo era breve. Come era già successo in paesi come Francia e Germania, anche in Italia la stampa periodica attaccò gli atti sessuali tra uomini, inizialmente senza neanche nominarli, per definirli in seguito a chiare lettere atti di pederastia, usando un termine al tempo molto più comune di omosessualità.
Riviste satiriche come “Il Selvaggio”, diretto da Mino Maccari, o “L’Italiano”, diretto da Leo Longanesi, si assunsero il compito di denunciare quello che, a loro parere, era il malcostume degli Italiani, sia in ambito politico e culturale, sia su quanto concerneva la vita privata. Di conseguenza, era ovvio che i personaggi in voga venissero messi alla berlina per il loro pubblico operato, ma anche per il loro aspetto fisico e la loro condotta sessuale. Un umorismo che non sempre era malevolo, ma tutto sommato neanche troppo tenero. Specie verso fenomeni come quello dell’omosessualità.
Con gli anni il regime cercò di arginare la satira e i toni scandalistici, più che altro per una questione d’immagine dell’Italia e per il timore che un’eccessiva pubblicità di certi fatti di cronaca potesse essere controproducente sul piano dell’ordine pubblico e del buon costume. La critica dei costumi, e tra questi gli attacchi all’omosessualità, ricompariranno prepotenti nel secondo dopoguerra.
Nel contesto appena descritto nascono “L’Italiano”, irriverente rivista di satira, e il movimento di Strapaese, che a questa rivista era indissolubilmente legato.
Nell’editoriale che introduce il primo numero della rivista, Longanesi dichiara di voler rappresentare in quelle pagine l’Italia della tradizione, riconosciuta nella Romagna, nell’Emilia, nel Valdarno, in contrapposizione alle avanguardie artistiche francesi e tedesche. L’italiano che veniva delineato in questo programma era quindi un personaggio paesano, anzi strapaesano, che alzava la sua voce contro lo stracittadino imborghesito dalla cultura d’oltralpe. Questo era il background culturale delle caricature dell’Italiano.
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[i] Il presente saggio è la redazione finale della relazione presentata al convegno “Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945” (Bologna, 13-15 novembre 1997) organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia, dal Dipartimento di Filosofia e dal Dipartimento di Discipline Storiche dell’Università di Bologna, dall’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Una sua sintesi è stata pubblicata nel 1999, a cura di Alberto Burgio, in un volume edito da Il Mulino con lo stesso titolo del convegno.
[ii] Per tutti i dati generali sull’argomento, non documentati in nota, e per un quadro più completo sulla vicenda degli omosessuali durante il fascismo: Petrosino 1996.
[iii] Circa l’utilizzo del confino come mezzo di repressione della “condotta omosessuale” si consiglia la lettura del saggio di Goreni 1991.
L’omofobia di Strapaese
La manifestazione più esplicitamente omofoba de “L’Italiano” si manifesta tra il 1926 e il 1929, nel periodo più “strapaesano” della rivista[i]. Sarebbe interessante, nel momento in cui si esamina il “porsi in trincea” della nostra rivista, andare ad analizzare uno per uno i nemici di quella cultura italiana che Longanesi identificava nel modo di pensare delle province a cavallo dell’appennino toscoemiliano.
Vi è un trafiletto, abbastanza perfido, com’era nello stile della rivista, scritto dallo stesso Longanesi, in cui vengono passati in rassegna questi nemici. È un articolo sulla rivista “900”, del critico letterario Massimo Bontempelli, accusata di portare in Italia quella cultura europea e americana ritenuta da “L’Italiano” così tanto lontana dal nostro gusto estetico e culturale. L’articolo si chiama Morte del 900:
Si chiamava 900 perché il suo programma era quello di essere assolutamente moderno, dinamico e spoglio di ogni tradizione. Per essere moderno, il poveretto, cercò l’ispirazione nei bar, nei tabarin, nel cinematografo; si estasiò col saxofono, coi balletti russi, con l’arte negra, con la boxe, col rasoio di sicurezza; si innamorò di Josephine Baker e di Landru; scoprì il circolo equestre e Charlot; andò in brodo di giuggiole per gli ebrei che da quindici anni passano da un ismo all’altro; prese la cocaina, bevve il coctail, preferì la luce elettrica al sole, il ventilatore al libeccio, la piscina all’Oceano e sopra ogni altra cosa adorò il brodo d’oca metafisico.
E, poco più avanti:
Vedeva di buon occhio gli ermafroditi e i pederasti; adorava i mulatti; […] e non sapeva mai dir di no a un ebreo[ii].
L’articolo appena citato si può ragionevolmente considerare una buona foto di gruppo dei principali bersagli de “L’Italiano”. Come abbiamo letto, tra loro ci sono anche gli ermafroditi e i pederasti. Erano comunque questi ultimi il vero bersaglio delle invettive, vale a dire gli omosessuali di sesso maschile.
Tre palle un soldo: i bersagli de “L’Italiano”
Quella che adesso andiamo ad affrontare è un’attenta disamina degli elementi che, dalle pagine de “L’Italiano”, contribuiscono a definire lo stereotipo dell’omosessuale, sia di sesso maschile che di sesso femminile. Per scongiurare il rischio di ridursi a una semplice carrellata aneddotica di figurine ambigue e di battute pecorecce, sarà il caso di evidenziare subito quali sono gli obiettivi che si intendono raggiungere. Il primo, innanzitutto: scoprire quanto questo stereotipo appartenga alla tradizione italiana, e quanto invece la rafforzi, introducendo degli elementi fino allora sconosciuti. Il secondo obiettivo è invece quello di capire quale impatto avesse questo stereotipo nella mentalità popolare italiana, e soprattutto se vi fosse una connessione tra questo e la persecuzione attuata dal fascismo; terzo e ultimo obiettivo è quello di capire quali radici abbia sviluppato l’omofobia de “L’Italiano”, e quanto ad essa debba l’intolleranza verso gli omosessuali che campeggia nelle riviste del secondo dopoguerra.
Le loro correnti artistiche, e ancora la modernità, che secondo la redazione de L’Italiano viene travisata, per non dire traviata da un malinteso senso dell’arte e della cultura in generale, prodotto da quei popoli che, contrariamente all’Italia, avevano lasciato per strada i valori della cultura tradizionale. Tra i traviamenti venivano inserite le innovazioni nel campo del costume e le libertà sessuali.
Come dicevamo, Longanesi, in qualità di direttore, è il principale teorizzatore della difesa dei valori italiani. La dichiarazione d’intenti è palese fin dal primo numero, in cui la rivista viene definita “un giornale che la pensa da italiano tra questa masnada di tedescheria e di fronzolismo parigino”[iii] I bersagli, si viene a scoprire fra le righe, sono gli ambienti culturali di Parigi e, più sommessamente, di Berlino, le loro correnti artistiche, e ancora la modernità, che secondo la redazione de “L’Italiano” viene travisata, per non dire traviata da un malinteso senso dell’arte e della cultura in generale, prodotto da quei popoli che, contrariamente all’Italia, avevano lasciato per strada i valori della cultura tradizionale. Tra i traviamenti venivano inserite le innovazioni nel campo del costume e le libertà sessuali. Siamo nel 1926. Quale miglior argomento della nuova moda dei capelli alla maschietta[iv] che quell’anno imperversava fra le donne in tutta Europa? Si tenga conto che elementi di questo tipo erano tutt’altro che neutrali all’interno di un discorso sull’omosessualità, in quanto i capelli alla maschietta rinfocolarono il dibattito in corso sull’immagine femminile e, di conseguenza, su quella dell’uomo. Inoltre, se i ruoli sessuali erano definiti anche dall’abbigliamento, ecco che il ribaltamento dei canoni nel vestire costituiva implicitamente la premessa di una conseguente inversione sessuale. Ecco quindi gli attacchi alle androginee ragazze americane[v].
Tuttavia, questo tema non poteva che sfiorare la questione. Longanesi aveva bersagli ben più comodi da colpire: gli bastava pescare tra le avanguardie artistiche e letterarie. Il luogo comune dell’artista pederasta pervade le prime quattro annate de L’Italiano. Chiaro che l’artista in questione non è certo quello animato da italico spirito per la letteratura, ma quello che indulge ai nuovi stili di Francia e dintorni. Il contrasto che la redazione avverte tra il letterato alla francese e il mondo di Strapaese emerge chiaramente da una novella a firma Sisto, in cui un contadino descrive la venuta di un letterato dalla città:
un tizio in caramella, tutto lustro come l’unghie dei bovi quando vanno al mercato, con una tomobile. […] La sera si vestiva da frate e andava a spasso con una donna che poi il curato ci disse ch’era un omo e anzi pare… Cosa vuol che capisca quel culantino…, e son tutti così![vi]
Nella descrizione sopra riportata non si fatica a riconoscere il cliché del dandy, esterofilo in tutte le sue espressioni. Da una descrizione di Longanesi sappiamo che il dandy gioca a tennis, fuma la pipa, parla con la erre moscia e pensa al poker e alla cravatta a strisce. Nella vignetta che si collega al commento citato, il dandy è vestito con un gilet a rombi e un paio di pantaloni a quadri[vii]. Insieme ai dandy sono sotto accusa i locali che essi frequentano, i tabarin, covo della “cafoneria” esterofila, giusto per usare un’espressione dello scrittore Ardengo Soffici[viii]. Camillo Pellizzi, collaboratore assiduo della rivista, arriva a puntare il dito contro due locali in particolare: il Cova e il Faraglia[ix]. E quando con la legge si impose la chiusura dei tabarin, l’evento venne salutato sulle pagine dell’Italiano come una sana ventata moralizzatrice.
Secondo la redazione della rivista, nei tabarin era esaltato lo stile di vita nel quale si identificano gli omosessuali, forti di esempi celebri. Ecco quindi messi alla berlina i pederasti del tempo e quelli degli anni appena trascorsi, il cui carisma non era ancora scemato. Come in un tiro al bersaglio, dove i colpi vanno sempre contro il fantoccio più impopolare, ecco che qui i bersagli prescelti sono Wilde e Cocteau. Come i fantocci, anche Wilde e Cocteau sono dei simulacri: essi sono per la cultura strapaesana l’emblema dell’omosessuale (maschio) che non si adatta alle convenzioni e proprio per questo fa proseliti, con il suo stile di vita, tra le giovani generazioni[x]. Non a caso leggiamo fra le righe di una rubrica: “l’omosessualità è un’estetica come la massoneria è una [xi].”
Ulteriori bersagli, ma in tono minore, delle salaci battute di
Longanesi e soci sono Gide, Proust e Valery. Sia inteso che l’omosessualità di questi letterati è solo un’aggravante: pochi sono quelli che riescono, tra gli esponenti delle avanguardie artistiche, a scansare il terreno insidioso dell’umorismo strapaesano; cosicché, quando in un trafiletto leggiamo che “Picasso e Matisse incontrano la nostra simpatia e che De Chirico e De Pisis onorano l’Italia”, non dobbiamo dimenticare di leggere il titolo dell’articolo, in cui si dice chiaro che queste considerazioni sono “a testa in giù”[xii]: vale a dire, leggete il contrario di quel che diciamo. Ma i veri campioni dell’omofobia si rivelano essere Leo Longanesi e Curzio Malaparte.
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[i] Si legga sul tema il catalogo sulle opere di L.co Longanesi: Albonetti, Fanti (cura di) 1997; in particolare il saggio di Mariuccia Salvati.
[ii] L. L., Morte del 200, “L’Italiano”, a. 1 (1927), 12-13, p. 3.
[iii] L. LONGANESI, La morte di Nodoso, “L’Italiano”, 1926 (1), 1, p. 2.
[iv] L. LONGANESI, Rispondo a tono, “L’Italiano”, 1926 (1), 2, p. 3.
[v] I giusti pensieri del modesto signor di Bonafede, “L’Italiano”, 1926 (1), 6, p. 3. Vedi anche la vignetta pubblicata in “L’Italiano”, 1927 (1), 12-13, p. 1.
[vi] SISTO, Il tramontano, “L’Italiano”, 1926 (1), 9, p. 3. Si veda anche il disegno di Longanesi, intitolato Il vecchio gagà, “L’Italiano”, 1931, 5, p. 38; si veda anche E. FALQUI, Del vestire ala “Fox”, “L’Italiano”, 1926 (1), 14-15, p. 1, dove si stigmatizza l’abbigliamento dei dandy, definiti “ganimedi”.
[vii] L. LONGANESI, Funzione dell’aristocrazia in Italia, “L’Italiano”, 1927 (11), 12-13, p. 2
[viii] SOFFICI, Cafoneria, “L’Italiano”, 1926 (1), 7-8, p. 3.
[ix] C. PELLIZZA, Rossi e maron, ovvero I due passaporti, “L’Italiano”, 1926 (1), 14-15, p. 1.
[x] Si legga a proposito una frase comparsa nei primi numeri: “Ieri sera ho dato i primi precetti a mio figlio, circa gli autori da leggere, e gliene ho uccisi 3: Nietzke [sic] era un sifilitico! Cavallotti un beone! Wilde un pederasta!”. Il brano citato è tratto da I giusti pensieri del modesto signor di Bonafede, “L’Italiano”, 1926 (1), 3.
[xi] Considerazioni di un fascista povero, “L’Italiano”, 1928 (II), 3-4-5, p. 3.
[xii] Miscellanea (a testa in giù), “L’Italiano”, 1929 (TV), 9-10, p. 1.
La vergine ermafrodita fuma la pipa
È forse solo un caso che una delle riviste del dopoguerra che maggiormente si è accanita contro gli omosessuali sia proprio Il Borghese, di cui Longanesi è stato fondatore. Tuttavia, nelle prime annate de L’Italiano, Longanesi produce non solo la maggior parte delle battutacce omofobe, ma riesce a rappresentare, tramite le sue vignette, irriverenti figure di omosessuali che in ultima analisi si sintetizzano in due stereotipi, uno maschile, l’altro femminile. La prima vignetta che ci riguarda è dedicata alla chiusura dei tabarin. Il testo che descrive le caricature recita come segue:
Da una parte si vedono il poeta novecentista e la vergine ermafrodita che “vivono intensamente” al suono del saxofono negro. Dall’altra parte, la redazione dell’Italiano beve e ascolta una romanza del Trovatore, suonata dall’organetto. Longanesi, col bicchiere alzato, inneggia al Duce che ha voluto, con la chiusura dei tabarin, punire, non le ballerine, ma i cattivi letterati allievi di Bontempelli[i].
Tra i personaggi quello che a noi interessa è quello della “vergine ermafrodita”. La si riconosce a colpo d’occhio: tra il volteggiare della ballerina e del sassofonista nero c’è una donna muscolosa e arcigna che fuma la pipa[ii]; se non fosse per l’abito scollato e il seno la si potrebbe scambiare per uno scaricatore di porto. Questo stereotipo viene ripreso, di lì a poco, in un’altra vignetta dal titolo Ritratto della letteratura di Francia, ovvero il surrealismo in atto. Tra le figurine allineate in posa come in un bassorilievo si individua al centro un quartetto: il primo è un marinaio con la pipa e con la mano sulla spalla di un uomo snello, anch’egli con la pipa, che tende un braccio verso il marinaio e l’altro verso il viso di una figura androgina, a sua volta fornita di pipa e vestita con un abito maschile con la giacca attillata; questa figura, seduta su di un tavolo, ricambia a sua volta le attenzioni di un uomo con barba e occhiali. Alla fine della vignetta compare una donna, vestita con un lupetto attillato, che riceve in dono una pipa da un dandy, riconoscibile dalla giubba da marinaio, dalle “brache a lenzuolo” e dall’immancabile pipa.
L’allusione sembra chiara: la donna si impossessa dei simboli maschili e li fa propri, mutando personalità e fisionomia. L’idea non era frutto della mente di Longanesi, in quanto era opinione diffusa che le donne, nel momento in cui invadevano il campo maschile, rinunciassero alla propria identità di genere per scopiazzare gli uomini. Un’ampia letteratura in merito rafforzava di continuo questo pregiudizio. Oltre alla “vergine ermafrodita” Longanesi conia un altro stereotipo: quello della donna americana, che lui definisce androginea. A dir la verità, questa caricatura è molto meno riuscita della prima: al di là di una donna corpulenta vestita con abiti attillati, non si vede altro che possa suscitare il nostro interesse[iii].
Una parte per il tutto: le chiappe dei pederasti
Anche per l’omosessuale di sesso maschile Longanesi crea due personaggi: il marinaio e il pittore pederasta. Il marinaio, come figura dalla sessualità ambigua, compare per la prima volta nel Ritratto della letteratura di Francia. Il pittore pederasta fa invece parte di una vignetta altrettanto complessa, in cui si presentano, come fosse un circo, gli elementi caratteristici della nuova Unione Sovietica:
“Entrino, entrino! Vedranno la Santa Russia bolscevica senza correre nessun rischio. Vedranno il pensatore marxista che fa il mistico con tutte e due le mani; vedranno il pittore pederasta e dadaista che legge Cocteau e copia Picasso; vedranno la ballerina dei soliti balletti russi che balla con la musica e senza; vedranno il mugik guardasigilli che fuma il tabacco inglese nella pipa turca; vedranno il cosacco con gli occhi a mandorla che per un kopeco uccide dieci persone in una volta sola; vedranno la donna maritata che va ai giardini pubblici con cinque compagni; vedranno il poeta russo-cinese che si nutre di panslavismo e il tedesco che fa il russo per non pagare il dazio[iv].
Ed ecco come Longanesi disegna il pittore pederasta: tavolozza in mano, volto efebico, zazzeruto e pieno di lentiggini, questi indossa
un gilet a rombi, un paio di pantaloni a quadretti e un papillon a pallini. Vi è però un particolare: differenziandosi dalle altre figure maschili, il pittore è l’unico ad essere raffigurato con i glutei protesi all’indietro. Non si tratta di una semplice coincidenza. Se si ritorna a guardare il marinaio si scopre che anch’egli ha il deretano esposto in bella evidenza. Anche in una vignetta dal titolo L’etteratura italiana d’avanguardia filofrancese, disegnata nel 1928, vengono proposti gli stessi elementi: acquattati su uno sfondo nero, quasi a simulare il buio, sei omini, di cui uno vestito da marinaio, danno vita a una scenetta dall’aspetto vagamente orgiastico. E tutto un palparsi, uno strusciarsi e un abbracciarsi, tenendosi per mano e sedendosi a cavalcioni l’uno dell’altro[v].
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[i] 16 L. LONGANESI, La chiusura dei tabarini (vignetta), “L’Italiano”, 1927 (II), 1-2, p. 1.
[ii] L. LONGANESI, Ritratto della letteratura di Francia, ovvero il surrealismo in atto (vignetta), “L’Italiano”, 1927 (II), 3-4, p. 1. Circa le “brache a lenzuolo”, cfr il trafiletto pubblicato in “L’Italiano”, 1928 (I), 14-15, p. 1.
[iii] Vedi la vignetta sull’America pubblicata in “L’Italiano”, 1927 (II), 12-13, p. 1.
[iv] È la vignetta sulla “Santa russia bolscevica”, pubblicata in “L’Italiano”, 1927 (I), 7-8-9, p. 4.
[v] L. LONGANESI, Letteratura italiana d’avanguardia filofrancese (vignetta), “L’Italiano”, 1928 (III), 10-11, p. 1.
Malaparte e il suo punto di vista sugli omosessuali
Lasciandosi alle spalle il variegato mondo di Longanesi, viene obiettivamente da chiedersi se la sua torma di figurine celasse qualcosa di più della semplice irrisione. La risposta è forse rintracciabile nelle opere di Malaparte. Anch’egli non risparmiò colpi ai pederasti, come andremo a vedere: tuttavia egli ci ha lasciato una testimonianza del suo pensiero nei confronti del mondo degli omosessuali che, benché scritto ormai a vent’anni di distanza dalle collaborazioni con L’Italiano, danno un’idea precisa di come Malaparte giudicasse i pederasti.
Il brano che andiamo adesso a citare è tratto dal romanzo La pelle. In una Napoli liberata dagli Alleati, Malaparte incontra tutta una serie di figure che in quei giorni caratterizzavano la città partenopea; tra loro, una compagnia di omosessuali. Malaparte non si fa scrupolo di denigrare i pederasti, come lui si ostina a definirli; e, nella serie di accuse che lancia loro, quella che più a noi interessa è la seguente:
“Quegli stessi nobili Narcisi che, fino ad allora, si erano atteggiati ad esteti decadenti, a ultimi rappresentanti di una civiltà stanca, sazia di piaceri e di sensazioni, ed avevano chiesto ad un Novalis, a un Conte di Lautréamont, a un Oscar Wilde, e a Diaghilev, a Rainer Maria Rilke, a D’Annunzio, a Gide, a Cocteau, a Marcel Proust, a Jacques Maritain, a Strawinski, e perfino a Barrés, i motivi del loro estenuato estetismo ‘borghese’ si atteggiavano ora ad esteti marxisti; e predicavano il marxismo come fino ad allora avevano predicato il più esaurito narcisismo…” [Malaparte 1991: 84].
Malaparte era stato ancora più chiaro alcune pagine dopo:
“Ne ho conosciuti migliaia come te, dopo l’altra guerra, che credevano d’essere dadaisti o surrealisti, e non erano che puttane. Vedrai, dopo questa guerra, quanti giovani crederanno d’essere comunisti. Quando gli Alleati avranno liberato tutta l’Europa, sai che troveranno? una massa di giovani delusi, corrotti, disperati, che giocheranno a fare i pederasti come giocherebbero al tennis. E sempre la solita storia, dopo una guerra. I giovani come te, per stanchezza e disgusto dell’eroismo, finiscono quasi sempre nella pederastia. Si mettono a fare i Narcisi e i Coridoni per dimostrare a sé stessi che non hanno paura di nulla, che hanno superato i pregiudizi e le convenzioni borghesi, che sono veramente liberi, uomini liberi…[i]“.
Bisogna dire che l’antitesi tra eroismo di guerra e pederastia è quanto meno singolare, letta in questi termini. Nel romanzo La pelle Malaparte crea una singolare antitesi tra eroismo di guerra e pederastia. Quello che egli vuole dire è che, dopo la prima guerra mondiale, i giovani rifuggirono dal culto della guerra e del cameratismo per rifugiarsi nell’estetismo borghese. Salvo poi, al finire della seconda guerra mondiale, convertirsi al comunismo per dimostrare a sé stessi di aver superato le convenzioni borghesi.
“Il reame dei cornuti di Francia”
Nell’ottica di Malaparte, nel secondo dopoguerra come negli anni de L’Italiano, non vi è spazio per un discorso pacato sull’omosessualità, in quanto essa è semplicemente l’ostentazione di un malinteso desiderio di libertà. Forte di questa sua tesi, egli non aveva disdegnato, tra il 1926 e il 1929, di usare la sua penna come una spada per colpire i pederasti. Ne è un valido esempio una poesiola dal titolo Il serpente sodomita, nella quale si irride a Jean Cocteau[ii].
“Dopo che Adamo ed Eva assaporato / ebbero il pomo, – anch’io, pensò il goloso / serpente, consumar voglio il peccato – / e avvitatosi all’albero famoso / si scelse un altro pomo e l’ingollò. / Ma nella fretta si dimenticò / di masticarlo come si conviene / per digerirlo bene. // Sul finir della sesta, / appena si sveglio, / ponza e riponza il povero serpente / s’avvide finalmente / con suo grande dispetto / che il frutto maledetto, / rimasto intero e sano, / non gli poteva uscir dall’altro lato, / Pensò – mi son sbagliato: / se non l’ho masticato con la bocca / per forza ora mi tocca / Masticarlo con l’ano. – // Così che il serpente diventò / l’antenato fatal di Jean Cocteau[iii].”
Vi è un’altra opera di Malaparte che, relativamente al periodo tra le due guerre, tira in ballo gli omosessuali, sempre e solo quelli di sesso maschile. Si tratta di un romanzo che nel 1926 sarà pubblicato a puntate sulle pagine de L’Italiano, senza mai giungere a completamento e senza venir mai ristampato in volume come era d’uso allora. Il titolo, Il reame dei cornuti di Francia[iv], è già una premessa di quel che il romanzo contiene. Concepito in un’ottica strettamente strapaesana, esso ha per sfondo quella fetta di Toscana situata tra Prato e Livorno, e si propone di rappresentare, nei personaggi e nel linguaggio, lo spirito toscano, quello alla Benigni, tanto per intenderci. In questo contesto Malaparte coglie l’occasione per inserire fantasiose battute sugli omosessuali.
La storia è questa: il protagonista narra in prima persona come un giorno il padre, preoccupato dalle masturbazioni del figlio, che si indebolisce sempre più, ordini a quest’ultimo di fare un viaggio di sei mesi in Francia, “paese di donne scontente, dove nulla t’impedirà di sfogarti a comodo tuo secondo natura”. Così il giovane fa le valigie, saluta e parte in direzione di Prato per andare a Livorno, dove conosce il Piglia, che sta per salpare in direzione della Francia a bordo della sua nave, la Pomona[v]. Così il nostro protagonista parte con la ciurma. Dopo un attacco di mal di mare, subito dall’oste Trippaccia, altro ospite della nave, e dopo che questi viene esorcizzato dal demone del vino per opera di Frate Braciola, chierico della Pomona, equipaggio e passeggeri vanno tutti insieme a pranzo[vi].
Se si esclude il dialogo intercorso in osteria prima della partenza, in cui si sostiene che “Livorno è una città di c. sani”, la prima allusione oscena nei confronti dell’omosessualità compare proprio durante il pranzo. Frate Braciola si lancia in un elogio dei fagioli, produttori di un “vento” capace di fugare le navi del nemico. Nulla possono contro i fagioli le rape e gli invidiosi finocchi: addirittura
“… i fagioli in paragone fugano assai più della tramontana e gonfierebbero la schiena a tutti i finocchi della terra […]. Più i fagioli sono di fiato lungo e più sono vendicativi contro chi li offende con impedirli di soffiare, al contrario di ciò che usano i finocchi, beati loro, i quali hanno per costume di vendicarsi delle offese voltando la schiena a chi li prende di petto.”
“Avverti perché non s’intenda male”, disse l’oste Trippaccia, “che tu parli dei finocchi da tavola, non da schola cantorum; di quelli che crescono nell’orto, non di quelli che si atteggiano a socratici o a platonici; finocchi di campagna, non di città, mangerecci, buoni cotti alla bolognese e buonissimi crudi in pinzimonio alla romana e alla fiorentina.
La conversazione continua disinvoltamente, toccando i temi più sboccati; ma all’improvviso succede il parapiglia: sul ponte della nave è scoppiata una rissa per il possesso della mascotte, una capra, che adesso rischia di essere mangiata[vii]. La causa scatenante del conflitto è la gelosia; leggete perché:
“O come si fa a essere gelosi di una capra?” domandai più tardi al Piglia, quando gli fu passato il bollore dell’arrabbiatura.
“Gli dovresti domandare piuttosto come si fa ad avere per ganza una capra”, disse Frate Braciola.
“O non lo sai che la Maremma è alle porte di Livorno?” replicò ridendo il padrone della Pomona. “E che certi usi dei caprai maremmani, costretti a viver soli, senza donne, nei pascoli e nelle macchie di padule per settimane e settimane, non dispiacciono ai livornesi? almeno a quelli che son costretti, come noialtri, a vivere in mare gran parte dell’anno?”
“Ahi! Venere nefanda”, esclamò il frate.
“Chiamala come vuoi, questa Venere maremmana; ma chi oserebbe rimproverarmi di aver preferito regalare una capra a questi arrabbiati, piuttosto che avere a bordo una ciurma socratica o platonica? In certi casi una capra è la migliore difesa contro le tentazioni dei sensi; e in quanto a me, io son più contento d’essere il capitano d’una ciurma livornese, pronta a far felici tutte le donne e tutte le greggi di Francia, che d’aver sulla mia nave un equipaggio alla Brunetto Latini, il quale andò a Parigi a farsi… lo so io quel che si fece fare. Si dirà che i miei uomini hanno per ganza una capra, e che non si vergognerebbero di nutrire un affetto paterno perfi-no, Dio li abbia in gloria, per il cacio pecorino, ma non si dirà mai che la Pomona ha mutato nome in quello di Sodoma!”
Tutto chiaro: la ciurma si diletta con la capra, mentre per il capitano e i passeggeri viene riservata la Diavola nera, cuoca e Pompadour della nave; ella è una donna di colore, e passa ogni notte con un uomo diverso. Giunge il turno del nostro protagonista, e il racconto si interrompe con queste parole:
Mi voltai di scatto, e mi vidi davanti la Pompadour della Pomona, nera, gonfia di desiderio ed ansante, come un’eviratrice[viii].
Non sapremo mai come si svolge l’incontro tra il nostro protagonista e la Diavola nera, né sapremo in quali avventure sarebbe incappato il nostro in Francia. Il racconto finisce qui.
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[i] Ivi, p. 109.
[ii] C. MALAPARTE, Il serpente sodomita, “L’Italiano”, 1928 (II), 6-7, p. 3. Cfr D. PETROSINO, Traditori della stirpe, cit.
[iii] C. MALAPARTE, Il serpente sodomita, “L’Italiano”, 1928 (III), 6-7, p. 3.
[iv] Si dà l’annuncio della imminente pubblicazione in “L’Italiano”, 1926 (I), 3, p. 3. Il racconto viene poi pubblicato in “L’Italiano”, 1926 (I), 4, p. 3; 1926 (I), 6, p. 3; 1926 (I), 10-11, p. 3-4; 1926 (I), 14-15, p. 3.
[v] C. MALAPARTE, Il reame dei cornuti di Francia, “L’Italiano”, 1926 (I), 4, p. 3.
[vi] C. MALAPARTE, Il reame dei cornuti di Francia, “L’Italiano”, 1926 (I), 6, p. 3.
[vii] C. MALAPARTE, Il reame dei cornuti di Francia, “L’Italiano”, 1926 (I), 10-11, p. 3-4;
[viii] C. MALAPARTE, Il reame dei cornuti di Francia, “L’Italiano”, 1926 (I), 14-15, p. 3.
Conclusioni (o, se preferite, premessa per un discorso più ampio)
È giunto adesso il momento di fare il punto sulle questioni affrontate.
L’omofobia de “L’Italiano” seguiva una tradizione? Longanesi ribadisce più volte che lo stile della rivista si inserisce nel filone di una certa tradizione italiana, e si può tranquillamente affermare che in essa rientrasse, con un posto di riguardo, anche l’omofobia. Ce lo conferma l’esistenza, a cavallo tra ottocento e novecento, di una pubblicistica tesa ad additare al pubblico ludibrio gli omosessuali – anche stavolta con preferenza per quelli di sesso maschile. Si vada a leggere, per esempio, quello che scrive Paolo Valera [1879 e 1909] sui luoghi di ritrovo per omosessuali nella Milano di fine Ottocento; oppure si consulti ancora un suo pamphlet contro Oscar Wilde e gli “oscarwildisti”, ossia gli omosessuali[i].
E comunque, senza andare troppo lontano, basta osservare cosa scrivono i contemporanei di Longanesi. Unico dubbio da chiarire è se il direttore de “L’Italiano” abbia o meno inventato gli stereotipi che raffigura nelle sue vignette.
Che gradimento riscuotono gli stereotipi de “L’Italiano”? Considerato lo scarso successo di vendite della rivista [Albonetti 1997], vi è ragione di credere che l’opinione pubblica fosse già abbastanza omofoba di suo, senza aver bisogno di condizionamenti. In quanto al rapporto tra gli scritti della rivista e le direttive del regime[ii], bisogna dire che “L’Italiano” aveva uno stile non proprio ortodosso, e dovette talvolta pagare la propria spudoratezza, fino a quando fu addirittura costretto a cambiare totalmente l’impostazione del giornale. Nei confronti degli omosessuali, poi, il fascismo seguiva altri metodi. Capita talvolta che la stessa stampa invochi per essi la repressione del regime; ciò nonostante, l’omosessualità verrà considerata ufficialmente un vizio d’oltre frontiera, senza che questa considerazione eliminasse il potente controllo sociale che veniva quotidianamente esercitato.
Che scuola forma l’omofobia de “L’Italiano”? Se si può dire che “L’Italiano”, nella serie successiva al 1929, fu una palestra per giornalisti come Arrigo Benedetti de “L’Espresso” e Mario Pannunzio de “Il Mondo” [Salvati 1997], non si può altrettanto dire che la rivista di Longanesi abbia formato uno spirito omofobo in tutti i suoi collaboratori. Sebbene Longanesi continui, con la fondazione de “Il Borghese”, la sua lotta contro i costumi, continuata su questo giornale anche dai suoi successori, bisogna d’altro canto rilevare come proprio “L’Espresso” e “Il Mondo” siano i primi periodici italiani, nel secondo dopoguerra, a mostrare una discreta apertura nei confronti della morale sessuale e a spendere una parola comprensiva nei confronti degli omosessuali.
Si tenga comunque presente che l’intolleranza non impedisce a Longanesi di pubblicare su “L’Italiano” le novelle di Giovanni Comisso, la cui letteratura era profondamente impregnata di omoerotismo. Il vero discrimine, forse, era quello tra l’omosessualità agita e vissuta più o meno palesemente, e una condotta che, pur celando a malapena un desiderio omosessuale, non costituisse motivo di scandalo. Meglio ancora se l’eventuale condotta omosessuale era opportunamente celata dal consenso al regime.
Quella di Longanesi fu in realtà una battaglia condotta contro l’esterofilia e in difesa di una morale d’altri tempi. Ebbe modo di scrivere nel 1926: “Val più un organetto di Barberia che tutti i jazz-band del Nord e del Sud”[iii]. Longanesi, dicendo ciò, era cosciente di avere la strada spianata: di lì a poco il regime fascista avrebbe portato delle restrizioni all’apertura dei locali notturni, sancendo la fine dei tabarin; come dire che, nella battaglia tra l’organetto e il “sassofono negro”, l’organetto aveva vinto. Una battaglia, tuttavia, non la guerra. Ma questa è un’altra storia, e ci conduce nel secondo dopoguerra.
Riferimenti bibliografici
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BURGIO A., CASALI L. (a cura di) 1996, Studi sul razzismo italiano, “Quaderni di discipline storiche” 10, Clueb, Bologna.
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VALERA P. 1909, I gentiluomini invertiti. Echi dello scandalo di Milano. Il caposcuola Oscar Wilde al processo con i suoi giovanotti, Floritta, Milano.
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[i] Entrambe le opere riportano un quadro degli ambienti omosessuali a Milano. Cfr Dall’Oro 1984, pp. 19, 81-82; e 1981.
[ii] 30 Si veda l’articolo di Carlo Scorza, pubblicato su “Costruire”, che se la prende con le camicie alla russa e con le mode dei giovani, paragonati a dei “postremi nipoti di ser Brunetto Latini”; Scorza conclude la sua filippica sottolineando: “Qui il Fascismo deve veramente intervenire col ferro e col fuoco, senza tolleranze ad eccezioni”. Cfr Scorza 1929, pp. 10-12.
[iii] Politica interna, “L’Italiano”, 1926 (0), 5, p. 1.
Ringraziamo anche la dottoressa Sebastio e la dottoressa Cervia per l’aiuto offerto durante questa preziosa ripubblicazione.
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