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Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana

 

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Anish Kapoor

Venezia, Gallerie dell’Accademia e Palazzo Manfrin
[ In mostra dal 20.04.2022 al 9.10.2022]

di Silvia Mondini

“L’identità singolare è il contrario esatto dell’arte(A. Kapoor, 2009)

Indagare è compito dell’arte(A. Kapoor, 2009)

Il confine c’è ma è permeabile come le frontiere del mondo contemporaneo(A. Kapoor, 2009)

La grande retrospettiva di Anish Kapoor – sessanta opere dislocate in due diverse sedi – costituisce, almeno per chi scrive, un invito a interagire con opere che si realizzano nel momento in cui le esperiamo e un’esortazione a inseguire liberamente il pensiero. Procederò per gradi.

Le Gallerie dell’Accademia – note per essere custodi della più grande collezione di pittura veneta dal XIV al XVIII secolo nonché dei capolavori di Bellini, Bosch, Canaletto, Carpaccio, Giorgione, Lotto, Tiepolo, Tintoretto, Tiziano, Veronese – riacquisiscono in questa occasione parte dell’antica consuetudine di “fare scuola” ospitando, ora come allora, autori contemporanei in grado di stimolare la crescita delle nuove generazioni di artisti.

Dopo Mario Merz (2015), Philiph Guston (2017), Georg Baselitz (2019) è ora la volta del poliedrico Anish Kapoor, per alcuni il più grande artista concettuale vivente, per altri grandioso esempio di artista che esula da qualsiasi definizione tradizionale; nato a Mumbai (1954) da padre indù e madre ebrea irachena, vissuto in paesi diversi per tradizione e cultura (India, Israele e Gran Bretagna), abile nel collocarsi in una posizione di ricerca che si pone a ponte tra pittura e scultura, tra consistenza materiale e illusione, tra realtà e finzione tanto da poter essere ritenuto dal critico Homi K. Bhabba  “il signore che sta nel mezzo” (Donatella Giordano, 2022).

 

A. Kapoor- Shooting into the Corner (2008-2009) Foto Silvia Mondini
A. Kapoor- Shooting into the Corner (2008-2009)
Foto Silvia Mondini
A. Kapoor- Shooting into the Corner (2008-2009) Foto Silvia Mondini

L’impatto con le produzioni contenute nella prima sala delle Gallerie è ostico; l’opera posta a destra dell’entrata – Shooting into the Corner (2008-2009)[1] – evoca nell’immediato l’immagine di un massacro, un’immagine così forte da richiamare a sua volta l’odore del sangue. Accelero il passo e volgo lo sguardo altrove ma quel che occupa il centro della stessa sala non annulla la sgradevolezza della sensazione.

In questo preciso frangente si avvicina una giovane donna che, con voce gentile, dice che, se lo desidero, può fornire qualche informazione sull’artista e la sua produzione. E mentre stupita mi domando se il mio disagio sia così evidente capisco che questa giovane donna é un’assistente museale garbatamente decisa a proporsi nel suo ruolo di intermediazione. Annuisco e mi fermo. Lei sorride e, come se avesse capito il mio pensiero di poco prima, aggiunge

“E’ importante tener conto che nella tradizione indiana il rosso non rappresenta solo il sangue ma anche la potenza generativa della vita… si vedrà meglio più avanti”.

Poche parole ma sufficienti a far emergere qualcosa che, seppur noto, era scomparso… senza il suo intervento, davanti a quel lago di sangue, avrei continuato a pensare solo alla ferita, alla distruzione, alla morte.

Mettendo insieme, proprio grazie a lei, i due opposti mi viene in mente l’”angoscia rossa” (Green,1980), quell’angoscia che, intrecciando desiderio erotico e aggressivo, si iscrive nel contesto di una “ferita corporea, associata ad un atto cruento” (Green, 1980, p.269) e contraddistingue “la clinica della castrazione e dei suoi eccessi omicidi” (Chabert, 2018, p.42).

Solo ora, avendo in mente la serie rossa, comincio ad accorgermi del richiamo al femminile e al materno, e al suo doppio potere generativo e distruttivo, presente in tutte le opere di Anish Kapoor

 

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[1] L’opera – punto di incontro tra scultura, perfomance e installazione – consiste in un cannone appositamente creato e capace di sparare dei proiettili di cera rossa che si sfracellano all’angolo tra due pareti e poi si ammassano al suolo. La performance, che tuttavia non ho avuto modo di vedere – si ripete con ritmo regolare creando un forte senso di tensione nel silenzio della sala.

Pregnant withe with in me (tecnica mista, 2022) Foto Silvia Mondini
Pregnant withe with in me (tecnica mista, 2022)
Foto Silvia Mondini

Passo alla seconda sala e vengo catturata da Pregnant withe with in me (tecnica mista, 2022), un’istallazione enigmatica, surreale, ingannevole, prodotta da un rigonfiamento della parete che la ospita e da un sapiente uso del bianco su bianco; un’opera fantasma, al confine tra essere e non essere, tra materia e illusione, capace di dissolversi alla nostra percezione sino a svanire nell’ambiente che la produce e contiene ma anche di farci toccare con mano la consistenza del vuoto, del “non-oggetto”, di ciò che esiste al di là della percezione.

Un’opera che ancora una volta richiama alla mente la teorizzazione di A. Green, questa volta penso all’ ambiguità del concetto di bianco così come da lui inteso; un’ambiguità consustanziale alla derivazione del  termine[1] e del suo collocarsi a livello della biforcazione semantica tra colore e vuoto, ovvero, nel punto in cui “la semantica del colore rimanda alla sparizione delle forme” (Green, 1983, p.188), laddove il bianco corrisponde all’invisibile, all’impercettibile, all’insensibile e, al limite, all’impensabile. (ibid, nota p.188).

Un bianco, quindi, che ha come contrario semantico la luce e il suo potere di dissipare le angosce di sparizione dell’oggetto, di quell’oggetto temibile, terribile, persecutorio proprio per la sua capacità di continuare ad essere presente proprio perché assente.

Come non pensare, allora, all’angoscia bianca (Green, 1980) che si produce nel contesto della perdita narcisistica, dell’abbandono e che mai si accompagna a circostanze cruente? A quella distruttività silenziosa che non ha niente a che vedere con la mutilazione sanguinante e che porta i colori del lutto: nero o bianco. Nero, come la depressione grave, bianco come gli stati di vuoto”? Come non pensare alla clinica del negativo (allucinazione negativa, psicosi bianca o lutto bianco)?

Quando il bianco designa il colore, richiama il nero: “la nerezza segreta del latte”, il contrario del “dolce latte della tenerezza umana”. Ma il nero è anche lo spazio notturno, quello della scomparsa dell’oggetto: seno, madre, pene della madre.

Che cosa succede nella psicosi bianca? L’Io procede a un disinvestimento delle rappresentazioni che lo mette a confronto con il suo vuoto costitutivo. L’Io si fa scomparire davanti all’intrusione del troppo-pieno di un rumore che deve ridurre al silenzio” (p.189).

 

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[1] Il termine bianco, così come inteso da Green, viene dall’ inglese blank che vuol dire spazio non occupato, vuoto. Il termine anglosassone a sua volta derivante dal francese blanc che designa un colore. Il termine francese deriva a sua volta dal tedesco occidentale blank che possiede lo stesso significato del termine latino albus, ossia, significa chiaro, terso.   

Kapoor Black ( 2020) Foto Silvia Mondini
Kapoor Black ( 2020)
Foto Silvia Mondini
Kapoor Black ( 2020) Foto Silvia Mondini

La terza sala, l’ultima dedicata all’artista anglo-indiano nella sede dell’Accademia, contiene opere realizzate con un pigmento costituito da nanotubi di carbonio in grado di assorbire più del 99,9% della luce visibile e di cui l’artista nel 2016 ha acquistato i diritti per l’utilizzo esclusivo dalla società che lo produce; Kapoor blank, dunque, in origine Vantablack, ovvero il nero che più nero non si può, capace di assorbire le pieghe della materia fino toglierle qualsiasi spessore.

Al centro di questa terza e ultima sala alcune teche di vetro (il pigmento mantiene un certo grado di tossicità) contengono figure capaci di cambiare forma e consistenza in base alla prospettiva di osservazione: triangoli, quadrati, cerchi bidimensionali se ci poniamo frontalmente, masse che si muovono insieme a noi quando ci spostiamo, oggetti tridimensionali e lievemente bizzarri se ci poniamo di lato.

Opere che si costringono a fare i conti con i limiti della percezione visiva e con l’inconoscibilità dell’oggetto, di quell’altro che pensiamo di conoscere ma la cui essenza continuamente sfugge.

Ai limiti superiori delle pareti sono posizionati dei romboidi la cui immobilità si associa ad una lieve sensazione di vertigine; l’assistente interviene aggiungendo che quella figura apparentemente piatta penetra all’interno della parete… faccio così esperienza del fatto che l’occhio non percepisce quel che la psiche registra in altro modo. Questo nero che sprofonda all’interno di una parete si configura come l’altra faccia della medaglia di Pregnant white within me, forme che appaiono e scompaiono con la complicità del colore che ne riveste la superficie, il limite tra interno ed esterno.

 

Ancora Green “Quando il bianco designa il colore, richiama il nero: “la nerezza segreta del latte”, il contrario del “dolce latte della tenerezza umana”. Ma il nero è anche lo spazio notturno, quello della scomparsa dell’oggetto: seno, madre, pene della madre”(ibid, p.189).

Kapoor Mirrors ( 2022) Foto Silvia Mondini
Kapoor Mirrors ( 2022)
Foto Silvia Mondini

Al termine dell’esposizione una videoistallazione ripropone le opere appena esperite e anticipa quelle esposte nella sede di Canareggio, in quel Palazzo Manfrin recentemente acquisito dall’artista con il progetto di dar vita alla Anish Kapoor Foundation, un’istituzione artistico-culturale che ospiterà una collezione permanente delle sue opere più importanti e un programma di mostre temporanee e di workshop finalizzate a contribuire una migliore comprensione dell’arte e della cultura contemporanea.  

Tra le opere esposte a Palazzo Manfrin le superfici riflettenti, quelle statiche dei grandi specchi e quelle mobili del pozzo con acque roteanti – offrono un altro sorprendente spettacolo che diverrà forse oggetto di altre riflessioni. 

 

 

Bibliografia

Chabert C. (2018).  Alle origini del negativo: la madre morta. In A. Baldassarro (a cura di) La passione del negativo. Franco Angeli, Milano 2018.

Giordano D. (2022). Inquietudine e rinascita nella mostra di Anish Kapoor a Venezia. Art Tribune.

Green A. (1980), La madre morta, in Narcisismo di vita,  narcisismo di morte. Borla, Roma, 1992.

Green A. (1983) Narcisimo di vita, narcisismo di morte. Borla, Roma, 1992

Kapoor A. (2009) cit. da Piccolo F. (2009): Anish Kapoor inghiottito da uno specchio. La Stampa

Silvia Mondini, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

silvia.mondini@spiweb.it

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