Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
di Francesco Onofri
Titolo: A Love Supreme
Pubblicazione: febbraio 1965, Impulse! Records
Durata totale: 32:45.
Tracce: 1. Acknowledgement (7:42) – 2. Resolution (7:19) – 3. Pursuance (10:42) – 4. Psalm (7:02)
John Coltrane, sax tenore
McCoy Tyner, pianoforte
Jimmy Garrison, contrabbasso
Elvin Jones, batteria
A love Supreme
«Alla cerimonia dei Grammy Awards del 2001, Carlos Santana e Joni Mitchell hanno congiuntamente proclamato l’album di Coltrane “Disco dell’Anno” (dopodiché hanno aperto la busta premiando gli U2» (Kahn, 2002, 30) …
… trentasette anni prima, alle otto di sera del 9 dicembre 1964, nello studio del tecnico del suono Rudy Van Gelder, John Coltrane ed il suo quartetto si riuniscono per registrare, in un’unica session, una suite jazzistica in quattro parti, della durata di poco più di 30 minuti. Le luci vengono abbassate, «il posizionamento del quartetto suggerisce un’intimità rilassata, simile a quella che si poteva ottenere sul palco […] Coltrane e i suoi sistemati a semicerchio di fronte al banco di regia, a mezzo metro di distanza l’uno dall’altro nonostante le dimensioni generose della sala di incisione» (Kahn, op. cit., 141). Trane a sinistra, Elvin dalla parte opposta, McCoy al centro e Jimmy tra piano e batteria.
Da sei mesi Coltrane non registrava musica, né in studio né dal vivo, periodo insolitamente lungo per un musicista che, dal 1957, anno della sua “rinascita” dopo la disintossicazione dall’eroina, aveva vissuto un’esplosione di creatività ed era stato estremamente prolifico. Un tempo durante il quale possiamo immaginare avesse lavorato alla creazione di A Love Supreme e che, alla luce del significato mistico-religioso attribuito a quest’opera, fa pensare suggestivamente ad un “ritiro spirituale”, piuttosto che ad una pausa per dedicarsi alla scrittura musicale (ma sono poi così distinguibili queste due esperienze?). Di fatto, al momento della registrazione, il gruppo non aveva una partitura completa dei brani da eseguire. Due di essi, “Acknowledgement” e “Resolution”, erano già stati provati in precedenza; ma Coltrane, quella sera, si presenta con spartiti essenziali, a cui aggiunge sul momento qualche breve indicazione per ciascuno dei suoi compagni. «I metodi di John Coltrane durante le sedute in studio rivelano l’influenza della scuola davisiana: poche parole e ancor meno prove» (Kahn, op. cit., ibidem).
Rudy Van Gelder ricorda che «avendo già pianificato tutto il disco, Coltrane riuscì a registrare l’intera suite in una sola seduta» (Kahn, op. cit., 144). Questo certamente fu merito anche del leggendario tecnico del suono, famoso per la cura e la pignoleria che metteva nelle sue registrazioni e dotato di una sensibilità tale nell’ascolto da essere in grado di intervenire con regolazioni minime durante l’esecuzione (come si può cogliere dalla registrazione), senza dover rimetter mano successivamente all’incisione. Ma soprattutto rappresenta il risultato del perfetto amalgama raggiunto da un quartetto composto da musicisti fuori dal comune; un gruppo nel quale, sebbene Coltrane rivesta il ruolo indiscusso del leader, durante l’esecuzione osserviamo l’emergere fluido e continuo di quattro eccezionali individualità, in un gioco figura-sfondo in cui ciascun musicista, compreso Trane, vive momenti nei quali svetta ed altri in cui viene “riassorbito” dall’insieme, in una sequenza di pulsazioni tra impasto e disimpasto musicale.
Il risultato è un disco dal vivo, registrato direttamente su un nastro a due tracce. Un clamoroso esempio di improvvisazione nel jazz. Kahn (op. cit.) ne fornisce una mirabile descrizione dal punto di vista musicale: «ciò che risuona al di sopra di ogni altra considerazione è la musica appassionata di A Love Supreme, un equilibrio coesivo tra composizione e improvvisazione, forma ed energia, mai raggiunto in nessun altro disco di Coltrane. È un’opera che costruisce, distrugge e infine riedifica in chiave minore una serie di strutture blues ingannevolmente semplici. Le melodie – esposte in modo succinto ma memorabili – aprono porte attraverso le quali il quartetto affronta un vertiginoso saliscendi di dinamiche perfettamente sincronizzate. […] Gli assolo di Coltrane si avvolgono a spirale, passando dal sussurro meditativo al feroce urlo semistrozzato con la padronanza ritmica di un esperto predicatore domenicale» (31).
Dal punto di vista armonico i brani di A Love Supreme non sono (forse) folgoranti come “Giant Steps” (1960)[1], composizione che rappresenta l’apice della padronanza armonica e tecnica di Trane; cimento assoluto, anche per i jazzisti più esperti. Ma forse è proprio l’unione di semplicità e complessità che ha reso A Love Supreme un’opera capace di uscire dai confini del jazz e della musica stessa per diventare un simbolo; nonché di posizionarsi tra i primi cento nella classifica dei migliori 500 album di tutti i tempi stilata dalla rivista Rolling Stone[2].
Anche l’ascoltatore meno esperto o chi non predilige la musica jazz può venire facilmente catturato dall’atmosfera del disco e da frasi melodiche decisamente orecchiabili; nonché dall’ampio uso, negli assolo di Coltrane, delle scale pentatoniche, che sono la struttura portante del blues e del rock stesso. «È il blues che tiene insieme tutto. La “vecchia magia”, come ha detto John Scofield, che ti permette di essere sperimentale ma di restare fruibile. Da Parker a Coleman a Jimi Hendrix, è l’intrinseco spirito bluesy a dare forma anche ai suoni più audaci» (Ghigi, 2025). Qualcosa quindi di familiare, che invita ad avvicinarsi, a varcare la soglia. Ma, una volta entrati, ci si trova al cospetto della grandezza e del mistero dello sviluppo improvvisativo del brano. Semplicità e complessità; conosciuto e sconosciuto; terreno e spirituale.
La suite di A Love Supreme ha una costruzione simmetrica: i brani di apertura e di chiusura hanno una struttura inusuale e vengono eseguiti con una “teatralità” finalizzata a mandare un messaggio diretto all’ascoltatore: una chiamata iniziale ed una preghiera di commiato conclusiva. I quattro musicisti suonano in un modo che li pone, alternativamente, al cospetto del pubblico, “davanti alla loro musica”. Invece i due pezzi centrali, in 4/4 e “swinganti”, riportano l’ascoltatore su un terreno jazzistico più conosciuto; esempio straordinario di virtuosismo gruppale, che mette in primo piano la musica, il jazz[3].
Nel primo brano della suite, “Acknowledgement”, «il riverbero metallico di [un] singolo colpo di gong[4] sgombra il campo da tutte le consuetudini cristallizzate del jazz» (Kahn, op. cit., 147). Una breve melodia del sax di Trane chiama a raccolta, annuncia che sta per succedere qualcosa di straordinario; anche gli altri strumenti si uniscono alla chiamata. Il basso di Garrison scandisce le quattro note che “sillabano” il titolo dell’album, come sarà chiaro alla fine dell’esecuzione, quando Trane allontanerà il suo strumento dal microfono ed intonerà, con la sua stessa voce, “a-love-su-preme, a-love-su-preme …”, per poi riconsegnare a Garrison le stesse note, fino alla chiusura. Nel mezzo, quasi sei minuti nei quali il sax compie ripetuti slanci verso le note più alte, spinte potenti verso la cima, per poi atterrare ogni volta sulla rete armonica intessuta dal piano di McCoy Tyner. A “lanciare” le spirali di note del sax, la sezione ritmica, in particolare la batteria di Elvin Jones, in un continuo e serrato dialogo con il sax; Jones è il fuoco che accende gli slanci pirotecnici di Trane.
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[1] https://youtu.be/xy_fxxj1mMY?si=msj-a-SrIbHFWDm_
[2] Unico album di jazz nelle prime 100 posizioni, assieme a Kind of Blue di Miles Davis (1959), che lo precede e che risulta essere il disco di jazz più venduto di tutti i tempi, al cui successo contribuì lo stesso Coltrane il quale, con il suo poderoso virtuosismo solistico, costituì una coppia perfetta con lo stile più misurato e “cerebrale” di Miles.
[3] Per un’approfondita analisi musicale del disco consiglio al lettore il già citato libro di Ashley Kahn.
[4] Strumento mai utilizzato in precedenza da Coltrane.
Il secondo pezzo, “Resolution”, ricorda all’ascoltatore che siamo pur sempre in un disco di jazz. La sua esecuzione trasmette apertura, energia vitale; tuttavia il tema del brano rimanda, a mio avviso, anche all’angoscia ed ai rischi che inevitabilmente il soggetto si assume nel momento in cui giunge, appunto, ad una “risoluzione interna” e si apre al cambiamento, all’ignoto.
“Pursuance”, il più lungo e, a mio giudizio, il più travolgente della suite, è l’esemplificazione clamorosa di come quattro musicisti riescano a diventare un unicum, suonando in uno stato di trance, posseduti dalla musica. Ma la cosa più significativa è che Pursuance e Psalm appartengono ad un’unica esecuzione, senza interruzioni; diciotto minuti di registrazione in cui si passa dal ritmo forsennato della prima parte, alla quiete malinconica della seconda.
La suite si chiude con “Psalm”, un’invocazione a Dio nella quale Trane “canta”, attraverso il suo sax tenore, la poesia scritta da lui stesso che compare sulla copertina del disco. Devo dire che è un’esperienza molto toccante seguire il testo facendosi guidare dalla melodia intonata dal sax[1]: non tanto per la religiosità del contenuto, quanto per il fatto che si coglie appieno la capacità di Coltrane di esprimere, attraverso il suo strumento, la componente emotiva del linguaggio, ricordandoci come musica e parole siano strettamente intrecciate, fin dall’inizio dell’esistenza. Qualcosa che rimanda al linguaggio materno, “parola musicale” per eccellenza, o alle lallazioni del bambino. Ma torna alla mente anche la semplice melodia di cinque note con la quale i terrestri tentano di mandare un primo “ciao” agli alieni, nel capolavoro di Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo.
A Love Supreme è un disco dichiaratamente spirituale, una preghiera di ringraziamento al Divino, come testimoniano la presentazione e la poesia scritte da Coltrane stesso, riportate sulla copertina del disco. Ma, sebbene Coltrane in questo disco usi le parole, non solo le note, egli resta saldamente all’interno della musica; non sconfina mai nella retorica del predicatore. Egli realizza mirabilmente il proposito, più volte esplicitato, di generare emozioni ed esprimere la “verità” attraverso il suo strumento: «credo che la maggioranza dei musicisti siano interessati alla verità, lo sono per forza, perché ogni musica è una verità. Se suonando fai un’affermazione, un’affermazione musicale, e se è un’affermazione valida, allora già di per sé è una verità. Se suoni qualcosa di falso, lo sai benissimo che è falso. Tutti i musicisti tentano di avvicinarsi il più possibile alla perfezione. Ed è anche quella una forma di verità, no?» (cit. in: Porter, 1998, 383).
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[1] Nella biografia scritta da Lewis Porter (1998, pagg. 363-368) si trovano ampi stralci della musica suonata da Coltrane sovrapposta ai versi della poesia.
Ai confini dell’Io: passione, forma e misticismo da una prospettiva psicoanalitica
Mi sembra che A Love Supreme ed in generale la figura di John Coltrane (nonché la stessa musica jazz) sollecitino dal punto di vista psicoanalitico diverse riflessioni intorno al concetto di confine. In psicoanalisi i confini per eccellenza sono quelli dell’Io. Infatti, come osserva La Scala (2012), «L’Io che nasce differenziandosi dall’Es in seguito al contatto con la realtà esterna, è inteso da Freud come un essere di frontiera per il suo articolarsi al limite tra la realtà esterna e quella interna, tra il corpo e la psiche, come anche tra il principio di piacere e quello di realtà, tra processo primario secondario» (13). Proverò allora ad esplorare brevemente questo tema da due differenti prospettive.
Una prima osservazione riguarda il concetto di passione e come questo si leghi al misticismo da cui sono pervasi A Love Supreme e la figura stessa di John Coltrane. Lewis Porter (op. cit.), nella biografia dedicata al sassofonista, descrive con amore e rigore storiografico l’intreccio tra il percorso umano e quello musicale di Trane, mettendo in evidenza come vi sia una costante nella parabola di questo straordinario artista: una dedizione ed una passione per la musica e per lo strumento fuori dal comune, totalizzanti. Da quando Coltrane, da bambino, cominciò lo studio del clarinetto e poco dopo del sassofono, non smise mai di suonare, e non è un’iperbole. Numerosi sono gli aneddoti, anche spiritosi, che ritraggono Coltrane impegnato giorno e notte ad esercitarsi con il suo sax. Uno fra tutti, quello raccontato dalla cugina Mary (alla quale Trane dedicò una composizione, Cousin Mary[1] pubblicata nell’album Giant Steps): «Vivevamo tutti insieme in quelle due stanze e lui non faceva altro che starsene lì a suonare e fumare sigarette. Si sedeva alla mia toilette e si guardava allo specchio mentre suonava. Noi ci eravamo abituate ai suoi esercizi, ma i vicini no. Quando si lamentavano il pastore della chiesa che frequentavamo dava a John la chiave della chiesa. Poteva andare a esercitarsi lì quando voleva» (Porter, op. cit., 69). Coltrane si esercitava in continuazione, persino durante i concerti: non era raro che, durante le pause, egli si chiudesse in bagno a provare e riprovare determinati passaggi. Lo stesso tema di “Acknowledgement” fu fatto ascoltare per la prima volta da Trane ai suoi compagni durante la pausa di un’esibizione, nel bagno del Jazz Workshop di Boston (Kahn, op. cit., 147). Diversi musicisti o avventori dei locali hanno assistito a scene del genere: particolarmente divertente quella raccontata da David Crosby[2].
Coltrane ha vissuto l’intera sua vita sospinto da un’inesauribile tensione a migliorarsi tecnicamente, ad approfondire le proprie conoscenze teoriche e ad esplorare l’armonia fino ai suoi confini. Un’incessante e tormentata ricerca di perfezione e di verità, condotta per lo più in una condizione psichica di solitudine, di isolamento. Questo ha contribuito certamente a conferire, a posteriori, un significato mistico alla sua esistenza e alla sua musica. Quando Trane non era in giro a fare concerti, era chiuso in casa a suonare. Miles Davis (1989), a questo proposito, racconta: «L’unica cosa che gli importava era suonare, era semplicemente e soltanto la musica, e se ci fosse stata una donna lì, in piedi, nuda davanti a lui, non l’avrebbe nemmeno vista» (226). «Era come se avesse una specie di missione» (239).
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[1] https://youtu.be/lC7PEkD6agQ?si=At9N2DzsDwATx12Y
[2] https://youtu.be/KekSaZ160uw?si=R4onayZXX_RE6-yJ
Stein (2015) afferma che nei musicisti si osserva «un importante investimento dell’Io che dura per una vita intera e un gemellaggio identitario faccia a faccia nei confronti dello strumento e delle molte questioni che hanno a che fare con il padroneggiarlo e il farlo suonare […] livelli eccezionali di disciplina; una cresciuta tolleranza per l’isolamento e l’attesa che derivano dall’intenso rigore della pratica quotidiana […]. Il rapporto del musicista con il proprio strumento poi costituisce un amalgama emozionale complesso, dal punto di vista psicologico e fisico. […] I suoni dello strumento, non solo il suono della musica, diventano direttamente collegati per il musicista con il pensiero, il sentimento, la percezione di sé e l’azione corporea individuali» (2015, 15).
È possibile, in tutto ciò, stabilire un confine tra normalità e patologia? Tra una dedizione che arricchisce l’Io o una passione che lo consuma? Ed un confine tra soggetto ed oggetto, tra Io e non-Io? Lungi da me l’idea di inoltrami in una sorta di patografia coltraniana (genere che non amo e che in questo caso mi sembrerebbe dissacrante), ma la vicenda di Trane può servire come esempio per una riflessione.
A proposito dell’esperienza passionale e dei suoi possibili risvolti mistici e sacrificali, Sassanelli (2008) sostiene che essa può essere compresa, dal punto di vista metapsicologico, come una relazione narcisistica idealizzante con l’oggetto, «descrivibile nei termini di un soggetto che sente e/o si comporta come se la propria coesione interna e la pacifica ricomposizione dei propri conflitti e contraddizioni dipendessero in definitiva dalla sottomissione a una figura o entità superiore, sede e fonte di ogni perfezione, a cui affidarsi e a cui tendere» (77). L’autore parte da quanto teorizzato da Freud in Psicologia delle Masse e Analisi dell’Io (1921) a proposito del fenomeno dell’innamoramento, nel quale «l’oggetto si è messo al posto dell’ideale dell’io […] l’Io diventa sempre meno esigente, più umile, l’oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino a impossessarsi da ultimo dell’intero amore che l’Io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l’autosacrificio dell’Io» (299-301). Sassanelli, tuttavia, propone un punto di vista che si discosta in parte da Freud, enfatizzando il comportamento di autosacrificio del soggetto e definendo l’oggetto d’amore come «oggetto-Sé narcisistico ideale» (op. cit., 78). «In breve – spiega l’Autore – non è l’estrema valorizzazione dell’oggetto amato a determinare come conseguenza l’autosacrificio dell’Io ma, al contrario, è il sacrificio di parti libidiche e vitali di sé a porre in essere e a valorizzare la figura ideale; figura la cui genesi e la cui natura rimandano non a un processo di sopravvalutazione dell’oggetto da parte dell’Io ma al costituirsi di un’immagine visiva combinata soggetto-altro alla cui intrinseca perfezione […] il soggetto affiderà il suo mondo pulsionale altrimenti non controllabile, ricevendone in cambio stabilità, sicurezza e benessere. […] La figura ideale a cui il soggetto si affida con umile sottomissione non è l’immagine divina perfetta e onnicomprensiva (l’oggetto idealizzato) ma quella di lui stesso e della divinità uniti nell’eterna beatitudine […]» (ibidem).
Sassanelli si riferisce, in particolare, alla passione amorosa, ma credo che le sue riflessioni si possano estendere alla passione per qualsiasi “oggetto d’amore”, anche astratto, anche materiale. Quando Naima, la prima moglie di Coltrane, lo definisce un uomo «al novanta per cento sassofono» (cit. in: Kahn, op. cit. 75), o quando pensiamo alle giornate intere trascorse da Trane ad esercitarsi, sottoponendosi ad un vero e proprio tour de force fisico, a quale tipo di passione ci stiamo riferendo? Come si unisce il fatto che la fisicità possente di quest’uomo (non solo l’esercizio) gli permise di raggiungere, col sax, livelli tecnici di esecuzione ad altri preclusi, con il fatto che il suo corpo veniva quotidianamente consumato dalle droghe, dall’alcol e dal consumo smodato di dolci? Ci troviamo di fronte ad un esempio di passione mistica e sacrificale? Porter (op. cit.), a questo proposito, esprime un’interessante riflessione: «c’è sempre […] l’impressione che esercitarsi per Coltrane fosse un’ossessione, che non si trattasse semplicemente di sforzarsi di migliorare, ma che ci fosse alla base una disperazione, una spinta emotiva, in qualche modo anomala. Sospetto che questa sua caratteristica sia legata alla morte del padre[1]. Ho l’impressione che l’attività musicale per lui fosse in qualche misura legata al disfacimento della sua famiglia. Per chi suona, la musica rappresenta sempre un elemento di continuità, un sostegno emotivo costante, che nessun rapporto umano può offrire» (97-98). Lascio al lettore la possibilità di esplorare ulteriormente questo tema, traendo le proprie conclusioni.
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[1] Avvenuta quando John aveva 12 anni.
Un secondo ordine di riflessioni, a partire da A Love Supreme, riguarda l’associazione tra il concetto di confine, o di limite, e quello di forma. «Il jazz, in gran parte, consiste nel mettere alla prova la tenuta della struttura di una canzone», afferma Ratliff (2008, 187). Sicuramente John Coltrane è tra i musicisti che più efficacemente hanno messo in pratica questa caratteristica, portandola fino alle estreme conseguenze e raggiungendo quasi sempre risultati straordinari. Ritengo che il suo modo di suonare sia di grande interesse per una riflessione psicoanalitica sul concetto di forma, o se vogliamo di “forma buona” (per citare il noto Test di Rorschach). L’ascolto degli ultimi album, specie dal vivo, registrati con il quintetto/sestetto di Miles Davis, dopo il clamoroso successo di Kind of Blue, ci permette di mettere a confronto lo stile misurato ed elegante di Miles (il quale concepiva la musica come il “mettere delle note intorno al silenzio”) con quello torrenziale e sempre ai limiti della “buona forma” dal punto di vista armonico di Trane. Molti all’epoca attribuirono allo stile di Coltrane anche un aspetto di aggressività, cosa che egli e le persone che lo conoscevano meglio (come Miles) hanno sempre smentito. È interessantissimo, ad esempio, ascoltare il disco dal vivo[1] che ripropone alcune straordinarie performance tratte dall’ultimo tour europeo affrontato da Coltrane assieme al quintetto di Miles Davis, nel 1960, dove il gruppo esegue celebri standard ed alcuni brani di jazz modale di Kind of Blue. Miles esegue sempre il primo assolo, lasciando poi spazio a Trane, a volte sostenendo il suo ingresso con alcune note lunghe (che a mio parere sono il segno dell’ammirazione e del riconoscimento della grandezza del sassofonista da parte del suo leader carismatico). Coltrane prolunga i suoi assolo per diverse battute in più rispetto a Davis, inoltrandosi in una serie infinita di quelle che furono battezzate dal critico di Down Beat, Ira Gitler, “sheets of sound”, strisce sonore composte da velocissime e fluide scale. In diversi brani si coglie distintamente come, ad un certo punto dell’assolo di Trane, il pubblico cominci a manifestare una certa tensione, arriva qualche fischio; al termine, l’applauso scrosciante, mescolato ai fischi, sembra segnalare un sentimento ambivalente di meraviglia, di apprezzamento, ma anche di liberazione da qualcosa che deve aver messo in crisi buona parte del pubblico.
Cappelletti (2021) afferma che «con Coltrane il caos entra definitivamente in musica. È l’abolizione della simmetria, dell’ordine, di quel procedere ordinato e rigoroso su cui si innesta l’idea di forma. Qui non c’è direzione, è un costante ritornare, un riavvolgersi del nastro su sé stesso. Musica sempre diversa e sempre uguale come le onde del mare. […] A differenza di Miles Trane non si trattiene, sfoga in musica tutta la sua esuberanza ed energia vitale, le pause non gli servono ad evidenziare la struttura ma a riprendere fiato, a ritrovare energia. Sembrerebbe egocentrismo ma qui siamo oltre il regno dell’io, in una fusione panica con le forze dell’universo, verso le quali Coltrane tende con crescente misticismo negli ultimi dischi» (147-148).
Un altro spunto per porci, ancora una volta, una domanda che, a mio giudizio, non prevede risposta: qual è il limite, il confine tra buona forma e cattiva forma, tra armonia e dis-armonia? E come si collega tutto ciò con il concetto di verità, verso la quale Coltrane ha teso per tutta la vita; concetto così prezioso ed enigmatico anche in Psicoanalisi? Quello che la musica di Coltrane (e, come lui, di molti altri grandi musicisti) ci insegna è che ciò che “suona bene” molto spesso suona anche come “falso”. O forse ad essere false sono l’armonia o la disarmonia prese “in purezza”, in senso assoluto e come dogmi (come nei casi estremi di un jazz troppo manieristico o, all’opposto, così free da sconfinare nel rumore). Sembra proprio, come ci dimostra mirabilmente la musica di John Coltrane, che l’esito più felice e più “vero” si ottenga quando il musicista riesce a tenere insieme i momenti armonici e quelli disarmonici, andando a formare un insieme di livello superiore, che di per sé “suona bene”, ha un senso. In questi felici momenti la musica non è solo performance, bensì concetto, idea, opera d’arte. Analogamente, la pratica analitica quotidiana ci dimostra come, spesso, quando analista e paziente “se la cantano” con troppa soddisfazione, quando ciò che emerge è troppo “eufonico”, ci stiamo allontanando dalla “verità” dell’inconscio. Al contrario, i momenti di dissonanza nella coppia analitica (conflitto, angoscia, non capire), ci mettono spesso sulle tracce di un elemento/frammento di verità, di qualcosa di ancor più vero di quanto fino a quel punto era stato possibile osservare e comprendere. E così armonia e disarmonia si riuniscono ad un livello superiore, che dà nuovo impulso al processo analitico.
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[1] The Final Tour: The Bootleg Series, Vol. 6. Columbia/Legacy, 2018.
Per concludere, A Love Supreme rappresenta senza dubbio uno snodo fondamentale nella vita di Coltrane, sia dal punto di vista musicale sia da quello esistenziale. Questo album consacra definitivamente la sua musica e ancor più la sua figura di leader e di modello, anche ad un livello sociale e “politico”. Da quel momento, Coltrane e la sua opera prendono direzioni divergenti: mentre A Love Supreme diventa un simbolo di spiritualità e di libertà e comincia a portare il suo messaggio in giro per il mondo – diventato ormai “opera collettiva”, “sito simbolico” – Trane sembra imboccare musicalmente una strada che lo porterà, fino alla precoce fine della sua vita, sempre più lontano dal pubblico e da quella capacità, anche teatrale, di conquistare l’ascoltatore con la sua musica audace, estrema, ma così intrisa di blues. Credo tuttavia che non si possa dubitare del fatto che Trane abbia cercato di comunicare qualcosa di “vero” fino all’ultimo.
Coltrane “parla” attraverso il suo sax; forse lo ha fatto fin da quando ci ha soffiato dentro la prima volta. E non è semplicemente una metafora: credo che Trane, oltre a voler emozionare e mandare messaggi “sinceri” al suo pubblico, abbia tentato disperatamente di dare rappresentazione ad elementi traumatici del suo mondo interno e ad un dualismo che ha caratterizzato la sua figura: un uomo tanto dolce e introverso, ma anche involuto, nella vita, quanto vulcanico, libero e vitale nella sua musica. A questo proposito, mi sembra che “Psalm”, ed in generale l’intera suite di A Love Supreme, riportino all’aneddoto sopra citato della cugina Mary: un ragazzo solo, alle prese con una serie di lutti familiari (in primis la perdita del padre) e con la difficile realtà degli afroamericani negli Stati Uniti dei primi decenni del ‘900, si esercita in chiesa, al cospetto del “dio-padre”, al cospetto della propria grandezza già intuita, in una fusione tra il Sé e l’oggetto. Ma queste sono solo irrispettose speculazioni psicoanalitiche; lasciamo spazio alla musica.
Bibliografia
Cappelletti, A. (2021). Il profumo del Jazz. Milano, Mimesis.
Davis, M.; Troupe, Q. (1989). Miles. L’autobiografia di un mito del jazz. Milano, Rizzoli, 1990.
Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, 9, 257-330. Torino, Bollati Boringhieri.
Ghigi, C. (2025). Comunicazione personale
Kahn, A. (2002). A love supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane. Milano, Il Saggiatore, 2019.
La Scala, M. (2012). Spazi e limiti psichici. Milano, Franco Angeli.
Porter, L. (1998). Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane. Roma, Minimum Fax, 2006.
Ratliff, B. (2008). Come si ascolta il Jazz. Roma, Minimum Fax, 2010.
Sassanelli, G. (2008). Itinerari e figure della passione. Torino, Antigone Edizioni.
Stein, A. (2015). “Prospettive psicoanalitiche sulla musica”. In: De Mari, M.; Carnevali, C.; Saponi, S. (a cura di) (2015). Tra psicoanalisi e musica. Roma, Alpes.
Francesco Onofri, Padova
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