Saldature dell’inconscio. Il post-umano in chiave punk

di Chiara Buoncristiani e Tommaso Romani

Titolo del film: TetsuoThe Iron man
Dati sul film: regia di Shin’ya Tsukamoto, Giappone, 1989, 78′

Genere: horror

Trailer: https://www.youtube.com

Soon even your brain

Will turn into metal

Let me show you something wonderful

A new world

(da Tetsuo)

Nel cuore pulsante e corrosivo della metropoli giapponese degli anni ’80, tra fabbriche abbandonate, treni suburbani e una carne già contaminata da uno spirito meccanico, prende forma TetsuoThe Iron Man (1989) di Shinya Tsukamoto, film mostruoso e necessario che esplode come un corpo in corto circuito tra l’estetica punk, la violenza del desiderio, e la mutazione irreversibile della materia organica. Nato all’interno di un ecosistema underground che faceva del rumore, della velocità e della distorsione una forma di resistenza all’ordine sociale e percettivo del Giappone post boom economico, Tetsuo non si limita a rappresentare il disagio di un’epoca: lo incarna, lo brucia, lo fonde letteralmente. E nel farlo, ci consegna una delle più radicali riflessioni cinematografiche sul corpo postumano, sul desiderio come forza produttiva, e sulla possibilità di pensare ancora, oggi, cosa può un corpo.

Il film, della durata di poco più di un’ora, è un’orgia visiva in bianco e nero, girata con budget minimo e tensione massima, in cui un salaryman viene progressivamente colonizzato da escrescenze metalliche che lo trasformano in un ibrido mostruoso, una macchina desiderante che non può più distinguere tra carne e acciaio, eros e ruggine. Tutto ha inizio quando investe un misterioso “fetishist del metallo”, un uomo che trae piacere estremo dall’innestare ferraglia nella propria carne e da quel momento il metallo inizia a fiorire dal suo corpo come una maledizione.

Da quel momento, la carne del protagonista inizia a mutare, fiorendo in lamiere, ingranaggi e punte perforanti. Il finale è terribile e definitivo: i due corpi finiscono per fondersi in un’unica, enorme creatura biomeccanica informe, una sinistra alleanza tra vittima e carnefice, pronta a seminare morte e distruzione nel mondo. Una simbiosi che non ha nulla della tenerezza e della regressione: è potenza, è devastazione. Torneremo alla fine sulla regressione.

La narrazione, frammentaria e allucinata, è più simile a un attacco epilettico che a una progressione logica: è un flusso pulsante di immagini disturbanti, di sesso e deformazione, di lotta e fusione, fino alla trasformazione finale. Nessun redentore, nessuna morale: solo il rumore, la mutazione, il desiderio.

Ma cos’è questo desiderio? E cosa sta diventando il corpo oggi, una volta privato della sua integrità umanista? Con Tsukamoto, siamo già oltre la soglia freudiana della rimozione, siamo in un territorio dove il corpo non è più teatro del conflitto edipico, ma macchina di produzione intensiva: una macchina desiderante, come l’avrebbero definita Deleuze e Guattari (1972), dove non vi è alcun soggetto dietro la scena, ma solo flussi, connessioni, innesti. D’altronde, in un mondo ancora organizzato dalla rimozione, potevamo permetterci di collocare l’ordine da una parte — solitamente dalla nostra — e osservare ciò che ne restava escluso: la mancanza, come motore o come persecutore, veniva allora nominata come eccesso, femminile, resto, eccedenza, talvolta con lo sguardo del legislatore, altre volte abbandonandoci al fascino ambiguo dell’abiezione.

In Tetsuo, il desiderio non è ciò che manca, ma ciò che prolifera: una forza meccanica e sessuale insieme, che attraversa i corpi, li perfora, li espande, li reinventa. Il protagonista non “diventa macchina” perché qualcosa in lui va storto, ma perché era già macchina: assemblaggio fragile e precario di codice urbano, pulsione, norma e residuo. Il metallo non è solo una metafora: è la superficie nuova del desiderio.

Il punk giapponese degli anni ’80, con la sua estetica lacerata, con la sua performatività iper-situazionista, con la sua ossessione per la rovina, ha fornito il contesto ideale a questa mutazione. I GISM, i The Stalin, gli Hanatarash: tutte queste band hanno tradotto in suono e in gesto quella che era una vera e propria rivolta molecolare contro il corpo borghese, contro l’ordine simbolico, contro l’architettura di un Giappone che si costruiva come potenza economica negando ogni scoria pulsionale. Questo film è il loro equivalente visivo e narrativo: è una pellicola che canta con la gola lacerata e registra col corpo le interferenze dell’epoca, in uno spazio che non è più né interiore né esteriore, ma unicamente interfaccia.

Accade oggi che ciò che allora si registrava come interferenza sia velocemente realizzandosi in un nuovo paradigma.

Per questo il punk, se letto attraverso la lente del tempo presente, non è solo una forma di resistenza estetica o sonora: è una vera e propria pratica filosofica, una bussola visionaria nei territori confusi dell’oggi. In un tempo in cui la psicoanalisi fatica a orientarsi tra categorie che si sbriciolano — Edipo e pre-Edipo, maschile come simbolico, femminile come eccesso, “iomammapapà” — il punk ci ricorda che ciò che importa non è più la struttura, ma la vibrazione. Non c’è più un ordine da decostruire, ma un campo da attraversare, un’intensità da sostenere. La carne punk è carne infetta, aperta, vulnerabile, ma anche vibratile: come la materia che Jane Bennett (2010) descrive come vibrant matter, capace di agire, di esercitare una forma di volontà propria, fuori dalla dicotomia soggetto-oggetto. Ecco allora che Tetsuo non è solo un film su un corpo che subisce la mutazione, ma su un corpo che è la mutazione: materia viva, eccedente, performante.

E allora, come pensare oggi questo film, a distanza di quasi quarant’anni? Cosa ci dice nel tempo degli algoritmi, dell’intelligenza artificiale e del corpo connesso? Se sostituiamo l’estetica del metallo — quella dei bulloni e delle saldature, figlia di un immaginario postindustriale — con l’estetica dell’astrazione numerica, dell’algoritmo, del flusso invisibile, allora questa storia diventa una profezia spostata: non più l’incubo dell’uomo-fabbrica, ma quello dell’uomo-dato, del corpo che si fa interfaccia per il desiderio computazionale dell’accumulo di cognizioni da parte delle banche dati. Il corpo come superficie di calcolo, come nodo pulsante in una rete che lo attraversa e lo performa. Ma non è più il corpo-immagine, l’idealità speculare dello specchio lacaniano; è piuttosto il corpo-errore, il corpo-residuo, il corpo che resta fuori dal protocollo — ciò che Blanchot (1955) chiamava “il fuori luogo della soglia”, quella zona inabitabile dove la soggettività si disfa e rinasce come eco.

E qui torna la psicoanalisi, ma solo se ha il coraggio di rinunciare al corpo come dato, come organismo, come totalità predefinita. Il corpo in Tetsuo non è né simbolico né immaginario, è reale nel senso più brutale del termine: una materia in eccesso, una carne che eccede il linguaggio, che si mette a parlare da sola, come un linguaggio impazzito. È qui che possiamo convocare Wittgenstein (1967), laddove osserva che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo: Tetsuo è ciò che accade quando il corpo rompe quei limiti, quando l’ineffabile diventa materiale, quando il nonsenso prende la forma tagliente di una trivella fallica che si avvita nel cuore dell’identità. Ma è ancora Wittgenstein — nel suo Zettel, nei suoi frammenti aforistici (1967) — a suggerirci che il corpo è lo strumento dell’anima: affermazione ingenua, forse, ma che nella torsione del film diventa paradossalmente vera. Perché se l’anima non è altro che il groviglio delle sue connessioni, delle sue resistenze, delle sue lacerazioni, allora sì, il corpo meccanico e vibrante che si muove in questo film è lo strumento perfetto per questa anima mutante, dissociata, intensiva.

Torniamo dunque al concetto di simbiosi che merita di essere sottratto alla sua interpretazione regressiva, tipica di certa psicoanalisi classica, dove la fusione simbiotica è vista come un ritorno all’indifferenziato, al materno, all’originario. Qui, invece, la simbiosi non è ritorno, ma avanzamento perverso: è la produzione di un nuovo soggetto post-individuale, un’entità mostruosa che non ha più identità separate, ma solo circuiti condivisi. Non vi è nulla di nostalgico in questa unione: è un’alleanza post-umana tra forze disgiunte, una rete di potenza senza centro né scopo, che riecheggia le riflessioni di Haraway (2019) sul becoming with, ma in una versione cupa, industriale, intrisa di pulsione di morte. La simbiosi, qui, è saldatura: unione non affettiva, ma tecnica, attraversamento e contagio, non armonia.

Questa visione della simbiosi come co-produzione violenta, come mutazione congiunta, è esattamente ciò che ci permette di pensare il corpo fuori dalla polarità soggetto/oggetto. La creatura finale non è più né “uno” né “l’altro”, ma qualcosa di irriducibile: un assemblaggio vivente, una macchina ibrida che produce senso nel momento stesso in cui disintegra ogni forma riconoscibile, forse sarebbe meglio definirlo come un “quasi” qualcosa. È una macchina desiderante che ha inglobato la sua stessa origine, rendendo impossibile ogni ritorno.

In questa prospettiva, la fusione finale dei due protagonisti può essere letta come una metafora inquietante del nostro tempo: viviamo già dentro una simbiosi generalizzata, non più tra corpi, ma tra dispositivi, reti e dati. Ogni soggettività è oggi parte di un macro-organismo connettivo, di un’ecologia informatica dove il sé è costantemente mappato, tracciato, calcolato. Non siamo separati dai sistemi, ma incorporati in essi. Non c’è più un fuori della macchina: siamo dentro, connessi, metabolizzati.

Questa connettività, che promette relazioni, appartenenza, prossimità, produce invece un nuovo tipo di fusione algoritmica: non più amore, ma adesione forzata; non più simbolico, ma calcolo. In questo senso, la creatura bio-meccanica di Tetsuo è meno lontana da noi di quanto sembri: è il nostro doppio possibile, il nostro specchio opaco, il nostro destino se continuiamo a confondere l’interfaccia con la relazione. La connettività, quando si fa destino, non connette: ingloba.

Ma qui non ci interessa dare giudizi quanto invece cartografare un mutamento.

Byung-Chul Han (2014) ha osservato con lucidità come l’ideologia della trasparenza e della condivisione, tipica della società digitale, non apra spazi di libertà, ma costruisca dispositivi di sorveglianza più efficienti, più dolci, e perciò più pervasivi. Nella società della prestazione, ciascuno si auto-espone, si auto-sfrutta, si auto-controlla: il soggetto non è più represso ma iperconnesso, non più alienato ma liquefatto nell’eccesso di dati. È questo il vero orrore esposto in questa epopea: che la fusione finale, l’incorporazione nella macchina, non ha bisogno della violenza. Basta l’infrastruttura.

Infine, possiamo forse dire che Tetsuo ci mostra cosa può un corpo oggi, ma solo se siamo pronti ad abbandonare ogni nostalgia dell’umano. Il corpo che Tsukamoto mette in scena è un corpo politico, perché rifiuta la quiete, la forma, l’ordine; è un corpo pulsionale, perché è interamente abitato da forze che non controlla e che lo spingono oltre sé; è un corpo connesso, nel senso più oscuro del termine, perché ogni connessione è anche una possibilità di contagio, di infezione, di trasformazione. Non c’è più distinzione tra interno ed esterno, tra macchina e carne, tra soggetto e ambiente. È questo il corpo che ci interessa: quello che resiste non opponendosi, ma trasformandosi, mutando, glitchando, diventando altro.

Ed è forse solo in questa mutazione che, come avrebbe detto Blanchot, “l’opera comincia dove nulla più può cominciare” (1955, p.129).

Tetsuo, oggi, non è solo un film: è una soglia. Sta a noi decidere se attraversarla.

Bibliografia

BENNETT J. (2010). Vibrant Matter. A Political Ecology of Things. Durham, Duke University Press.

BLANCHOT M. (1955). Lo spazio letterario. Torino, Einaudi, 2020.

BYUNG-CHUL H. (2014). Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere. Milano, Nottetempo, 2016.

DELEUZE G. (1968). Differenza e ripetizione. Milano, Raffaello Cortina, 1997.

DELEUZE G. – GUATTARI F. (1972). LAnti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia. Torino, Einaudi, 1975.

GUATTARI F. (1989). Cartografie schizoanalitiche. Bologna, Ombre Corte, 1990.

HARAWAY D. J. (2016). Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Roma, Nero, 2019.

LACAN J. (1973). Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino, Einaudi, 2003.

WITTGENSTEIN L. (1967). Frammenti. Milano, Adelphi, 1999.

 

 

Chiara Buoncristiani, Roma

Centro Psicoanalitico di Roma

cbuoncris@gmail.com

 

Tommaso Romani, Roma

Centro Psicoanalitico di Roma

tommaso.romani@me.com

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