"L’idiota" (Hakuchi) di Akira Kurosawa

Commento di Roberto Salati e Cesare Secchi[1]

 

[1] Questo scritto è la rielaborazione di un capitolo, espunto per motivi editoriali, del libro Misteri e passioni danime. La rappresentazione della follia nel cinema dautore di Roberto Salati e Cesare Secchi, Pisa, ETS 2024 (vedi recensione)

Titolo del film: L’idiota” (Hakuchi)

Dati sul film: regia di Akira Kurosawa, Giappone, 1951, 166’Genere: drammatico

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È opinione corrente che la traduzione sullo schermo cinematografico o televisivo di importanti opere narrative sia destinata, se non proprio al fallimento, a una resa parziale e riduttiva del testo originario. I romanzi e i racconti di Dostoevskij hanno spesso costituito lo spunto per lavori filmici dai risultati alterni, anche nelle mani di cineasti di rilievo, quali Visconti, Bresson, Kaurismaki, Wajda, Zulawski, Brooks e altri.

Un posto a parte merita “L’idiota” di Akira Kurosawa, che è unanimemente riconosciuto come un capolavoro. Il copione, firmato da Eijirô Hisaita e dallo stesso regista, resta assai aderente allo spirito del testo letterario, malgrado la netta riformulazione di certe parti. La vicenda è, infatti, trasposta dalla S. Pietroburgo ottocentesca all’isola di Hokkaido subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale: il trauma dell’immediato dopoguerra col suo senso di globale mortificazione viene a costituire, come spesso nell’opera di Kurosawa, uno sprone verso la sublimazione morale. Un’altra importante modifica della sceneggiatura riguarda l’episodio della mancata fucilazione occorso allo stesso Dostoevskij, che viene inserito nella vicenda come un’esperienza vissuta dal protagonista: già prigioniero degli Americani, l’Idiota, Kinji Kameda (un sobrio Masayuki Mori), sta per essere giustiziato per errore come criminale di guerra e viene riconosciuto innocente all’ultimo momento. Sempre dal punto di vista della scrittura del testo cinematografico, c’è un alternarsi di sequenze realistiche, quasi teatrali, e di sequenze evocative e sognanti. Per quanto concerne le prime, vi si ritrova il piglio narrativo di Dostoevskij, secondo cui l’azione drammatica si addensa in punti di crisi, fratture e catastrofi: ogni scambio comunicativo è una totale esposizione di sé, che richiama il dialogo socratico di ricerca della verità (cfr. Bachtin, 1929, passim). Per esempio, all’inizio del film, dopo aver fatto amicizia sul traghetto, Kameda-Myškin e Akama-Rogožin (Toshiro Mifune) passano davanti alla vetrina di un negozio fotografico, dove campeggia il ritratto di Taeko-Nastas’ja (una regale Setsuko Hara): si vede al centro l’immagine della donna e ai lati, rispecchiati dal vetro, i visi dei due nuovi amici, che si confidano le loro differenti passioni. Una seconda scena di questo genere la troviamo nel colloquio del protagonista con Ayako-Aglaja (Yoshiko Kuga). La fanciulla chiede a Kameda dell’episodio della morte scampata: “Il mondo, la sua gente, tutto quanto — risponde l’Idiota, guardando nel vuoto — d’improvviso sentii di amarli moltissimo…chiunque avessi anche solo visto…e non solo le persone…mi ricordai anche di un cane a cui, da piccolo, avevo tirato delle pietre e mi pentii di non essere stato più gentile”. Ayako chiede: “Il cane?”. Il protagonista annuisce: “Tutti. Promisi a me stesso di essere più gentile con chiunque, se mi avessero graziato”. Viceversa, tra le varie scene più visionarie (come la festa notturna del Drago o la fase precedente la crisi epilettica) va citata la veglia sul cadavere di Taeko da parte di Kameda-Myškin e Akama-Rogožin nella labirintica casa di quest’ultimo. Il corpo della donna non è mai visibile. I volti dei due amici biancheggiano nell’oscurità, contornati da alcune grosse candele accese: Kameda prende tra le mani e carezza il viso dello sciagurato Akama. Nel buio della stanza l’ultima candela, rovesciatasi al suolo, gradualmente si spegne. Il passaggio del protagonista alla condizione demenziale resta fuori campo, così come l’analoga sorte dell’amico (altra modifica dello script).

Lo spettatore è più volte indotto a misurarsi, tra stupore e incredulità, con i paradossi della soggettività umana, in consonanza al romanzo. Infatti, la dialettica relazionale tra il mite Kameda-Myškin, da una parte, e i suoi tre principali interlocutori (Taeko-Nastas’ia, Akama-Rogožin, Ayako-Aglaja) dall’altra, si realizza spesso al confine dell’assurdo e dell’impensabile: quasi il perturbante di un inconscio che tende ad affiorare in ogni inquadratura, in ogni movimento della camera, in ogni stacco di montaggio.

Per tentare di dare conto della peculiarità dei moti affettivi messi in scena, ci rifacciamo al modello di Matte Blanco: secondo l’autore (1988, 45), nel sistema inconscio o modo indivisibile vige il principio di simmetria, in base a cui non vengono presi in considerazione gli individui, ma le classi formate a partire da qualsiasi e comunque parziale somiglianza, accordo, contatto, con conseguente identificazione della parte con il tutto. La funzione proposizionale (concetto desunto sempre dalla logica matematica) è ciò che qualifica una classe. Nota Rayner (1995, 50): “L’inconscio non tratta con classi compiutamente definite nel senso di raccolte altrettanto definite di membri distinti. Tratta, invece, con attributi, nozioni, concetti (odiosità, solitudine, vitalità, “topità”, “gattità” o umanità), che sono gli equivalenti della funzione proposizionale della classe”. L’altro principio individuato da Matte Blanco è il principio di generalizzazione. La mente inconscia non solo tende a generalizzare ai livelli emozionali secondo la legge del tutto o del nulla, ma è portata a massimizzare all’infinito le proprietà degli oggetti; l’inconscio considererebbe ogni elemento come parte di un altro elemento, ogni insieme come parte di altri insiemi in un processo interminabile. Inoltre, a proposito dell’emozione, Carvalho et al. (2009, 65) affermano che “un’emozione[…]è esclusivamente sentita in modo unitario: è vissuta ‘in blocco'”. Sperimentata, dunque, come un’unità indivisibile e non come una sequenza, come tale essa è al di fuori della successione e non si presta al lavoro della coscienza, che si sposta nel tempo, con considerazioni successive prima di un aspetto e poi di un altro.

Ora, la sconcertante e virulenta atmosfera affettiva, che trascorre quasi tutta l’opera dostoevskiana, sfida ripetutamente il principio di non contraddizione e le leggi della logica tradizionale. Come ci sembra accadere anche nel film: Taeko-Nastas’ja ama/rifiuta Akama-Rogožin, e ama/rifiuta Kameda-Myškin; Akama-Rogožin ammira, ama, protegge Kameda-Myškin, ma è pure gelosissimo di lui e progetta di ucciderlo. La stessa Ayako-Aglaja la si direbbe innamorata del protagonista, benché ripetutamente lo disdegni, lo insulti e lo scacci. Le figure più ragionevoli, come Ono-generale Epančin, Tohota-Tockji, Satoko-Lizaveta Epančina e Kayama-Ganja, hanno minor rilievo. Nonostante i vari sforamenti nell’assurdo — suggeriti ora mediante scarti nella consequenzialità narrativa, ora tramite dissolvenze, sovraimpressioni, contrasti di luce — l’impianto realistico del racconto filmico non è mai sconfessato.

Tutto questo conferisce alle situazioni proposte dal testo cinematografico una specie d’inquietante trascendenza che le colloca come fuori del tempo e dello spazio. Inoltre, l’assolutizzazione delle passioni farebbe pensare che i personaggi centrali  possano essere visualizzati anche come funzioni proposizionali. Innanzitutto, in ogni segmento in cui compare Kameda-Myškin si profila forse il vero Sé (Winnicott, 1971) nella sua immanenza ontica: esso costituirebbe la funzione proposizionale di cui è portatore il protagonista.

Dunque, un vero Sé a un grado infinito: il nucleo essenziale della mente che, nei diversi contatti instaurati dall’Idiota, si irradia nei veri Sé nascosti e potenziali delle altre figure della storia secondo il principio di generalizzazione: le due donne, Akama- Rogožin, Kaoru-Koljia, Satoko-Lizaveta Epančina e, in qualche misura, Ono-generale Epančin farebbero parte della medesima classe. Un anello simmetrico irresistibile, promosso dal frangente cataclismatico della morte scongiurata in extremis.

Al punto che quasi ogni interazione dell’Idiota costituisce un perentorio momento della verità.

Non a caso l’episodio dell’esecuzione sospesa è comunicato da Kameda-Myškin in tre cruciali occasioni ai tre personaggi principali. Nondimeno, si rivelerebbero anche altri aspetti affatto incompatibili con la rappresentazione del vero Sé.

Quando sono in scena Taeko-Nastas’ja, Ayako-Aglaja e Akama-Rogožin s’impone, ancora a un grado infinito, la funzione proposizionale della Pulsionalità Totalizzante sui rispettivi oggetti: la sua qualità assoluta comporta, di conseguenza, l’emergere di rabbia e di gelosia, sempre a un livello elevatissimo, infinito, d’intensità.

A tutto ciò, si correla per le tre figure in questione una veemente intolleranza all’esclusione da una coppia immaginata come unita: un triangolo al cui centro si colloca sempre il protagonista. Tra le implicazioni della “pulsionalità totale,” potremmo segnalare lo sconfinato orgoglio, la riparazione maniacale, le condotte provocatorie, la radicale vendicatività. In numerose occasioni le due bellissime donne si sovrappongono e si confondono: membri delle medesime classi, identificate entrambe nelle descritte categorie emotive.

Tuttavia, per quel che concerne Ayako-Aglaja, in almeno due circostanze si instaura una diversa coniugazione tra modo divisibile e modo indivisibile.

Il citato colloquio con Kameda-Myškin mostra allo spettatore la premurosa sollecitudine della giovane nell’ascoltare l’Idiota che le espone i termini del suo progetto di “amore globale”.

Ayako effettua così un’operazione asimmetrica sia rispetto ai propri atteggiamenti di fondo prima accennati sia rispetto all’impatto col vero Sé: percependo, riconoscendo, differenziando.

La seconda scena, dove è presente una maggiore quota di modo asimmetrico, sarebbe riscontrabile nell’explicit, quando la famiglia di Ono-Epančin apprende dell’irreversibile condizione mentale di Kameda-Myškin: Ayako si apparta con Kaoru-Kolja, il ragazzino disperato per la sorte del protagonista.

La giovane donna nell’esplicitazione del proprio dolore sembra riconoscere i suoi veri sentimenti nei confronti dell’Idiota e apprezzare la statura morale di quest’ultimo:. “Era un uomo troppo buono per questo mondo…se soltanto sapessimo vivere amandoci come ha fatto lui, invece di scannarci…dovevo essere impazzita…l’idiota sono io”.

Da un lato, si è innescato un processo di lutto che secondo Carvalho et al. (op. cit., 144) è un’esperienza asimmetrica, in quanto si constata di aver perduto qualcuno e ci si è separati da lui; dall’altro lato, nell’ultima considerazione di Ayako-Aglaja sono forse anche operanti, nell’attivazione affettiva, il principio di simmetria e quello di generalizzazione: impazzita e idiota al pari di Kameda.

Quasi che in entrambe le situazioni la posizione asimmetrica assunta dalla fanciulla si appoggiasse su uno stato d’animo simmetrico. Va, inoltre, rilevato che, mentre la dinamica drammatica relativa ad Akama-Rogožin, Taeko-Nastas’ja e Ayako-Aglaja si articola su emozioni e aggressività della massima intensità, il protagonista in gran parte della vicenda si caratterizza per una propria maniera irripetibile di integrare le due logiche.

Infatti, benché Kameda-Myškin tenda ad accostarsi a tutti i personaggi dal punto di vista del vero Sé (modo simmetrico), spesso senza distinzioni tra uomini, donne, bambini e cani, nondimeno, egli dà continue prove di una capacità di insight su di sé e sugli altri assai lucide, discriminanti, precise, dunque articolate sul modo asimmetrico (l’Idiota coglie subito la sofferenza o l’insincerità dei suoi interlocutori).

Tutto ciò spiazza le altre figure del film (nonché il pubblico), che faticano a intonarsi all’approccio del protagonista. In ogni caso, lo stridore e l’esasperazione di questi paradossi rendono in un certo senso conseguente che la vicenda si concluda con due personaggi impazziti. Infatti, l’indementimento totale del protagonista (e di Akama) può corrispondere all’inabissamento in uno strato della mente dove la simmetrizzazione è così estesa che non solo non è più possibile alcuna forma di pensiero, ma addirittura scompare il soggetto, scompaiono Kameda e l’amico.

 

Ultimo approdo dell’aura enigmatica che permea tutto il film.         

Bibliografia

Bachtin M. (1929). Dostoevskij. Poetica e stilistica. Torino, Einaudi 1968.

Carvalho R, Ginzburg A, Lombardi R, Sanchez-Cardenas M. (2009). Matte Blanco. Une autre pensée psychanalytique. Paris, L’Harmattan.

Dostoevskij F. (1868). L’idiota. Torino, Einaudi 1981.

Matte Blanco I. (1988). Pensare, sentire, essere. Torino: Einaudi 1995.

Rayner E. (1995). Unconscious Logic. An Introduction to Matte Blanco’s Bi-Logic and It Uses. London & New York, Routledge.

Winnicott DW. (1971). Gioco e realtà. Roma, Armando, 1974.

 

 

 

Roberto Salati (Modena),

Associazione Italiana di Psicologia Analitica, Centro di Milano,

chiara.roberto94@gmail.com

 

Cesare Secchi (Reggio Emilia), 

Centro Psicoanalitico di Bologna,

cesare.secchi@virgilio.it

 

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