Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
KnotGarden 2025/2 “A partire da: Il problema del masochismo, Freud 1924”
di
Marisa Fiumanò
(Milano), Psicoanalista, psicoterapeuta. Membro AMA dell’Association Lacanienne Internationale.
*Per citare questo articolo:
Marisa Fiumanò (2025), Il masochismo “indispensabile” del sintomo. Rivista KnotGarden 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 78-92.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
Nel mio libro Masochismi ordinari[1] parlo di forme diverse di masochismo ma la forma per eccellenza di masochismo, quello che ci riguarda tutti, che ci accompagna tutti, è un masochismo che è alla base della struttura del soggetto e che Freud chiama «masochismo primario».
Anche per questo, perché il masochismo è alla base, all’origine della nostra vita, ho dato il titolo di «Masochismi ordinari» al libro: il masochismo è costitutivo del soggetto.
Il masochismo è comune, ordinario e ha radici profonde in ciascuno di noi.
Ma in quale economia?
Non l’economia del primo Freud, ma quella che Freud delinea a partire dagli anni ’20, con Al di là del principio di piacere[2], vale a dire l’economia della seconda topica.
Il testo in cui Freud presenta compiutamente la sua teoria del masochismo è del 1924: Il problema economico del masochismo[3]. Ne ha già parlato altrove, nei Tre saggi sulla teoria sessuale[4], in Pulsioni e loro destini[5],in Un bambino viene picchiato[6], un testo che fonda la teoria del fantasma. Nel testo del 1924 però Freud vuole farne una trattazione specifica, anche se più avanza e più la questione gli appare ingarbugliata.
Freud ci fa notare innanzitutto che la teoria del masochismo è incomprensibile se si fa riferimento alla economia psichica fondata sul principio di piacere, cioè quella delineata nella seconda topica.
Se consideriamo il principio di piacere come regolatore dei processi psichici il loro funzionamento è condizionato dall’ottenimento di piacere, dallo stare bene. In quest’ottica dispiacere e dolore devono suonare come campanelli d’allarme che ci permettono di evitare esperienze peggiori. Invece, e la clinica ce lo dimostra ogni giorno, ci infiliamo perennemente nei guai, anche se lo sappiamo in anticipo.
Ci infiliamo in storie amorose con poche probabilità di sbocco, facciamo cose che non ci piacciono, assecondiamo quello che ci chiedono gli altri, ci assoggettiamo a figure odiose e dispotiche oppure, al contrario a persone che amiamo ma alla cui volontà diamo la precedenza sulla nostra. Gli esempi potrebbero essere molti altri.
Nel caso del masochismo, dolore e dispiacere non sono campanelli d’allarme ma fini, qualcosa a cui si tende, che si vuole, inconsciamente, provare.
Fin qui Freud.
A questo proposito Lacan aggiunge dell’altro: il fine del masochista, ciò che egli vuole ottenere, non è tanto, o solo, il dispiacere, il provare dolore; dunque, non si tratta solo di una forma di godimento (Freud la chiamerebbe erogeno), il vero fine è suscitare qualcosa nell’Altro, un sentimento radicale come l’angoscia. Il vero fine del masochista -qui Lacan intende del masochista perverso – è quello di suscitare nel proprio simile – che svolge la funzione di grande Altro – una reazione d’angoscia.
Quello che mi sembra importane è che Lacan sottolinei che il masochismo non è autoreferenziale, non è solo pulsionale, non si riduce al voler provare dispiacere ma vuole suscitare qualcosa di grosso, di sconvolgente nell’Altro.
Questa è già un avanzamento rispetto alla teoria di Freud che non viene abbandonata, ma ripensata collocando il fine e l’interesse del masochista all’interno della relazione con il proprio simile.
Tutte le forme di masochismo esibito, mostrato, sottoposto allo sguardo dell’Altro hanno l’intento inconscio di provocare una reazione angosciata.
La miseria del mendicante, dello storpio, dello scarto umano, suscita angoscia nell’altro che guarda, a cui si tende la mano per ricevere un’elemosina: viene invocato lo sguardo che, attraverso l’angoscia, muove a compassione. Ciò che è cercato è l’angoscia, ci dice Lacan. Non che ogni mendicante sia masochista, ma ciò che produce come effetto è l’angoscia.
C’è uno stretto legame tra sguardo, l’oggetto «a» aggiunto da Lacan alla lista freudiana degli oggetti pulsionali, e l’angoscia.
Freud sottolinea invece la ricerca del dolore fisico e morale e ci dice che quella ricerca è il fine del masochista.
Il masochista «vuole» soffrire, cerca il piacere nel dolore, vuole padroneggiare la sua sofferenza, offrirsi come vittima indistruttibile all’Altro: è questo il gioco tra il masochista e il sadico che vuole assistere all’indistruttibilità della sua vittima.
Lacan fa fare uno scatto in più alla teoria del masochismo di Freud pur senza rinnegarla: dolore e dispiacere sono ricercati nella nuova economia masochista della seconda topica e la «naturale» ricerca di piacere che aveva ispirato la prima topica viene deviata. La ricerca della «jouissance», del piacere eccessivo, al confine con la sofferenza e col dolore, prevale sull’equilibrio, sul benessere.
Il principio di piacere diventa una specie di guardiano ubriaco dell’equilibrio della nostra psiche che può essere reso facilmente inoperante.
Freud abbandona quindi la teoria «quantitativa» dell’apparato psichico, dell’eccesso di pulsione che provoca un innalzamento delle difese da parte del principio di piacere, il tentativo di mantenere la situazione di «Nirvana» e le relative connessioni.
La seconda topica, – e il masochismo che ne asseconda l’economia – rompe il principio di equilibrio e apre le porte ad un’altra economia che governa l’umano.
Masochismo erogeno, che è primario, masochismo femmineo, masochismo morale: Freud li elenca, ma sottolinea che la componente erogena è una costante di ogni forma di masochismo. Nel masochismo c’è del godimento: l’erogeneità di cui parla Freud non è più solo quella legata al piacere anche se fa riferimento agli antichi piaceri infantili, a quelli che ricordiamo come piaceri.
Certamente sono piaceri angosciosi se solo pensiamo al masochismo inerme del lattante, alla sua dipendenza totale dal Nebenmensch, (il «soccoritore malevolo», «il prossimo estraneo»), al suo stato di derelizione (Hilflosighkeit). O ancora all’angoscia che supponiamo alla nascita di cui parla Rank, teoria su cui Freud si interroga.
D’altra parte, i ricordi sono prevalentemente ricordi di ciò che ci ha fatto soffrire. Ricordiamo soprattutto ciò che ci ha dato dolore.
Del masochismo legato alla nostra inermità non sappiamo niente, possiamo solo ipotizzarlo. Per questo Freud parla di «masochismo primario». Lacan, che vuole sottolineare il carattere costitutivo, più che il carattere «originario», temporale del masochismo, parla di «masochismo strutturale».
Indagare sulle cosiddette «origini» è tempo sprecato, non si arriva da nessuna parte, non c’è risposta alla domanda sull’origine, così come sulla morte, né teoria dell’origine. La questione «dell’origine», insomma, è fuorviante.
Meglio adottare la nozione di «reale» che ci propone Lacan che contiene già in sé un’insondabilità su cui, certo, si può indagare, ma che per definizione è inesauribile.
Lacan parla di «masochismo del reale» in un momento avanzato dei suoi seminari.
Il masochismo primario – o «strutturale» come lo chiamerà Lacan – ha a che fare eminentemente col reale.
Per questo quel gioco primitivo del rocchetto, del Fort-Da, è una simbolizzazione della sparizione della madre, certo, ma anche della propria stessa possibilità di sparire. Ci sono e sparisco, essere o non essere, sono vivo o sono morto, Fort-Da.
Siamo precari, ci percepiamo come precari, possiamo sparire: questo c’è già nella costruzione logica di un bambino che emette i suoi primi fonemi. Ernst, il nipotino di Freud, col suo gioco fa appello al simbolico della lingua per costruire la sua permanenza soggettiva. È il simbolico che garantisce la nostra soggettività.
Oggi questo tipo di appello sembra più complesso, le forme di distruttività più frequenti dei tentativi di simbolizzazione.
Oggi abbiamo a che fare con forme di autodistruttività, con la ricerca di stati di derelizione, di annientamento difficilmente curabili. È una forma di «masochismo del reale» questa specie di buco nero che attrae e risucchia tante vite giovani?
Freud spiegava la delinquenza come effetto di un senso di colpa e bisogno di espiazione. Vedi l’introduzione a «Dostoevskij e il parricidio»[7] che Freud scrive per la nuova edizione dei Fratelli Karamazov. Freud era un appassionato lettore di Dostoevskij, che pure considera un masochista morale.
Possiamo dire altrettanto oggi? Si tratta ancora di parricidio oppure di una iscrizione difettosa del significane «Nome del Padre» che produce i fenomeni di delinquenza? Oppure di una specie di appello affinché un’istanza, un principio di raccordo e coordinazione si renda operante?
Ci sono ancora, certo, i delinquenti per senso di colpa, ma la delinquenza non si spiega solo con il parricidio.
Il masochismo è una componente essenziale dell’economia delineata da Freud nella seconda topica, al limite possiamo definire questa seconda versione del funzionamento dell’apparato psichico: un funzionamento masochista.
Il masochismo è quindi una componente strutturale del soggetto, si presta perciò a molte letture. Io ne prediligo una che la clinica non fa che confermare: che un masochismo particolarmente difficile da estirpare e con cui ha a che fare l’analista è quello legato alla domanda (dell’Altro). Per alcuni più che per altri sottrarsi all’obbedienza a questa domanda è particolarmente penoso. È necessario sottrarsi, ma non per il gusto dell’insubordinazione ma perché quello che ci viene chiesto confligge col nostro desiderio. È la domanda dell’Altro a cui è difficile sottrarsi. Domanda immaginaria magari, domanda che non è fondamentale in colui che facciamo funzionare come Altro.
Penso in particolare alla dipendenza dalla domanda materna, ai tanti uomini (e donne) che ascolto che, in modi diversi passano la vita a rinunciare al proprio desiderio per attenersi a quello, vero o presunto, della madre.
Il masochismo inteso come rinuncia al proprio desiderio: credo sia una difficoltà centrale nella cura proprio perché la cura è guidata dal filo del desiderio del soggetto e l’analista deve mostrarglielo. Non solo limitarsi ad ascoltare ma anche sospingere il suo paziente, appoggiarlo, talvolta scuoterlo, guidarlo. Mostrargli la sua passività. Se è il momento. Se il transfert lo permette, se il discorso è maturo, se…
È il tempo del transfert a segnalare il tempo in cui cade l’Atto analitico. Il tempo dell’interpretazione.
«Oggi ho dovuto prendere un treno, fare in fretta, combinare gli orari, mi sono svegliato all’alba per venire qui. Tutti mi dicevano «rinuncia» ma io non voglio rinunciare a venire qui» … è lo stralcio di un discorso ascoltato dal lettino. È un paziente diviso tra la domanda dell’Altro, in questo caso un piccolo altro reale che gli chiede di infischiarsene dell’analisi perché questo romperebbe gli equilibri, cambierebbe la posizione del mio paziente. Invece l’analisi persegue il desiderio di chi parla e per questo deve forzare il suo masochismo.
Invece quando chi ci sta intorno, il cosiddetto entourage, sollecita il masochismo, l’analista può contare solo sul transfert per sostenere il desiderio del suo paziente.
La rinuncia a perseguire il proprio desiderio è la forma più evidente di masochismo ed è quella che ci occupa e preoccupa di più perché un soggetto che ristagna nella ripetizione e nella rinuncia non avanza, se non a fatica, nel suo discorso.
In questi casi bisogna fare attenzione a non enfatizzare: un accento troppo marcato sul desiderio può produrre una resistenza e se, al contrario, è troppo debole, rinvia all’infinito la soggettivazione di colui o colei che abbiamo in cura.
Il masochismo è quindi indispensabile.
È una questione che devo porre, se il masochismo possa essere considerato «indispensabile» come il sintomo.
Certamente, risponderei. Il masochismo è indispensabile perché segnala il tipo di dipendenza che un soggetto ha costruito col suo mondo o con le figure che ne hanno dominato l’esistenza; dice come e quando ripete questa forma di sottomissione all’ Altro (anche nel transfert, ad esempio); quali tracce segnala, cioè dove il suo desiderio ha ceduto, dove ha rinunciato, e dove quindi hanno preso forma i sintomi.
Emmy Von N., ad esempio, la paziente di Freud degli «Studi sull’isteria»[8], faceva risalire tutti i suoi sintomi alla morte del marito.
Vero o falso che fosse, c’è una congiunzione tra formazione del sintomo e rinuncia al desiderio, forma eminente di masochismo, di rinunzia. In questo consiste il «compromesso» del sintomo: contiene del desiderio e insieme del godimento ma sotto forma di sofferenza, di impaccio, di rinunzia.
Potremmo dire che la natura stessa del sintomo è masochista perché rallenta la vita del soggetto, ne inibisce le potenzialità.
Il sintomo è perciò impregnato di masochismo, di rinuncia e, al tempo stesso, di desiderio.
Il masochismo è perciò una componente strutturale del sintomo.
Senza masochismo, cioè senza sacrificio di ciò che si vuole, non ci sarebbe sintomo.
Il sintomo è però anche necessario, indispensabile.
Perché?
Il sintomo è indispensabile al soggetto, al desiderio (che si manifesta attraverso il sintomo).
È certamente indispensabile al soggetto, che è marchiato dal sintomo e sorretto dal sintomo in quanto costituisce un compromesso sul desiderio ma non lo annulla. Lo ammette e lo rimuove al tempo stesso. Lo conserva.
La psicoanalisi stessa, senza sintomo, neanche potrebbe esistere. Difatti è cominciata così.
La psicoanalisi viene creata dall’osservazione e dall’ascolto delle prime isteriche. Ai medici, Charcot, Breuer prima e Freud poi, vengono offerti sintomi, eclatanti ma anche docili, pronti a ritirarsi se il medico lo domanda, con o senza ipnosi, a tradursi in racconto e parola. Oppure capaci di esplodere con virulenza se l’Altro del transfert, il medico in questo caso, non risponde nel modo giusto, se non ricambia, se rinnega il transfert. Si pensi ad esempio alla gravidanza isterica di Anna O., offerta a Breuer come ultimo, disperato tentativo di trattenerlo, e che produce invece la sua fuga «borghese», come la definisce Lacan: il viaggio a Venezia con la legittima consorte durante il quale concepisce una bambina che morirà prematuramente. Il suo destino era segnato dalla scelta infelice del padre, una «soluzione», dice Lacan, dettata dalla morale del suo (e del nostro) tempo, che gli imponeva di misconoscere il proprio desiderio verso Anna.
Il sintomo, in particolare il sintomo isterico, permette alla psicoanalisi di nascere. All’epoca la finalità della cura era, appunto, la liberazione dal sintomo. Siamo nella logica medica: si ricerca la causa (nel caso dell’isteria la causa è un trauma sessuale) e si sperimentano i metodi per liberarne le pazienti.
Freud tenta prima con l’ipnosi e il cosiddetto «metodo catartico», poi passa alle associazioni tramite pressione della mano sulla fronte del paziente disteso, infine all’analisi vera e propria.
In quella fase aurorale della psicoanalisi il sintomo permane, oppure si attenua, sparisce ma poi ritorna. Freud constata che l’«abreazione» del sintomo con il metodo catartico è provvisoria, nella migliore delle ipotesi. I risultatati ci sono, sono «cospicui» (così Freud) ma non duraturi.
Non c’è vera guarigione. E la guarigione è, per il Freud degli «Studi sull’isteria» la eliminazione permanente del sintomo.
Lacan dirà poi che la guarigione è un «sovrappiù», qualcosa che avviene ma che non costituisce la finalità della cura. Non ha mai detto però che questo «sovrappiù» non sia importante.
Un’analisi non ha di mira, però, la sparizione del sintomo. A differenza di quanto pensava il primo Freud, la rimozione del sintomo è l’obiettivo di una psicoterapia, non di un’analisi, il che non vuol dire che un’analisi non possa far sparire un sintomo.
Il sintomo è in genere ciò che produce una domanda di cura.
Il sintomo è indispensabile per cominciare un’analisi anche se le forme del sintomo oggi spesso non hanno corposità e fanno traballare il soggetto piuttosto che renderlo dolorante. Spesso chi viene a chiedere un’analisi è disorientato, privo di posto, privo della sua soggettività.
Qualsiasi forma assuma il malessere esso è però indispensabile per spingere alla cura, per dare inizio a una cura, per provocare una domanda.
Una volta che un’analisi ha avuto inizio non ci occupiamo più del sintomo. Con la psicoanalisi siamo in un discorso che non è più quello della medicina in cui il sintomo segnala la disfunzione di un organo.
Questo non vuol dire che non prendiamo in considerazione ciò che il sintomo segnala.
Cosa segnala dunque il sintomo all’analista?
Il sintomo è indispensabile, abbiamo detto all’inizio, non solo perché fa partire una cura, ma perché è la manifestazione del desiderio.
In un seminario tenuto da Jean Paul Hiltenbrand a Milano per la nostra Associazione, l’ALI Milano, il 4 febbraio 2012, egli definiva l’affermazione: «Il sintomo è manifestazione di un desiderio», un «assioma» della psicoanalisi e proponeva di stabilire tra i due, sintomo e desiderio, una relazione di reciprocità: non c’è sintomo senza desiderio e non c’è desiderio senza sintomo.
Naturalmente la presenza del desiderio dobbiamo inferirla dal sintomo in quanto il sintomo implica la rimozione del desiderio. Il sintomo ci dice che un desiderio c’è ma che è stato rimosso. Anzi, potremmo dire che la virulenza del sintomo è proporzionale alla virulenza del desiderio.
Nel caso di Lucy, la giovane istitutrice inglese degli Studi sull’isteria, ad esempio: lei si innamora del Direttore (delle cui due bambine si occupa) ma ritiene di non avere il diritto di innamorarsi di lui: perciò si ammala.
La malattia, il sintomo, sono l’esito di un conflitto, di una divisione tra ciò che vorrebbe e ciò che non può volere, tra il voglio e il non voglio volere.
A volte un desiderio, rimosso e perciò sintomatico, ce lo trasciniamo dietro per tutta la vita e ci guardiamo bene dal soddisfarlo.
Come nel caso di una mia conoscente, morta all’ età di 92 anni con tutti i suoi sintomi intatti, che rimpiangeva, ancora nei suoi ultimi anni di vita, un flirt, neanche un amore ma solo uno scambio di occhiate, avute con un ragazzo prima del matrimonio. Si era sposata a 22 anni e non aveva avuto nessun altro uomo, marito a parte che non aveva mai amato.
Solo che, invece di essere conseguente con la sua insoddisfazione e perciò separarsi, cercare un altro uomo, si era crogiolata nella sua insoddisfazione stessa e aveva mantenuto tutti i suoi sintomi.
Era diventata un vero tiranno domestico e imperversava sui figli che, masochisticamente, la assecondavano.
Il sintomo segnala un desiderio ma il desiderio può essere misconosciuto, rimosso, rinnegato.
Questo non vuol dire che non faccia la sua parte, che non parli con la sua presenza ed evidenza.
Il sintomo risulta così non separabile, non disgiungibile dal desiderio.
Un sintomo, con l’inibizione, ancor più, con l’angoscia, costituisce la traccia per arrivare al desiderio[9].
A quale registro appartiene? Il registro del sintomo è simbolico.
Il sintomo si presenta in quanto simbolico, ha la struttura della metafora. Potremmo definirlo come la commemorazione di un avvenimento, di un avvenimento che ha prodotto godimento. Il sintomo lo commemora, esattamente come si fa nelle cerimonie che «onorano» un avvenimento passato.
Nel caso della mia conoscente, morta a 92 anni col suo sogno adolescenziale intatto, il sintomo più evidente era un tic che consisteva nel «mordersi la lingua» …Ci si morde la lingua per impedirsi di parlare, è questo il messaggio metaforico del tic.
Nel «mordersi la lingua» c’è commemorazione e in questa commemorazione c’è del godimento.
Naturalmente il soggetto non sa di quale commemorazione si tratti, cioè che cosa sta ripetendo, quali sono le radici del sintomo. Prova piacere però e perciò …si tiene il sintomo.
Il piacere del sintomo è essenziale al suo mantenimento.
Questo «piacere» o godimento del sintomo Freud lo chiama «affetto». L’affetto è indistruttibile, si conserva sempre e viene mantenuto e trasferito nel sintomo.
Affetto e significante
Qualcosa si perde, invece, ed è su questo che lavora la clinica: si è persa quella che Freud chiama la «rappresentazione». Noi, con Lacan, la chiamiamo: significante. Il significante è l’elemento linguistico che viene rimosso mentre l’affetto permane.
L’analista lavora per rintracciare il significante perché solo così si può ricostruire il discorso del soggetto, ricostruendo la catena significante del suo discorso.
La permanenza dell’affetto fa sì, come dice Freud, che il sintomo costituisca una soddisfazione sostitutiva.
Il sintomo contiene l’affetto indimenticabile che non sappiamo però a cosa collegare perché il significante è rimosso.
Sintomo e desiderio, sintomo e rimozione, sintomo e affetto, sintomo e significante, sintomo e simbolico sono le correlazioni che sottolineano quanto sia centrale il sintomo nella cura.
Ciò che lo rende però difficilmente estirpabile è la quantità di godimento che contiene.
Torna perciò la questione del masochismo come dipendenza dal godimento. Il masochismo poiché è sempre erogeno ed erotizzato, ci dice Freud, lo rende difficile da estirpare.
Il «masochismo del reale» tipico di tante forme sintomatiche del nostro tempo le raggruppiamo sotto il termine di «dipendenze»: dall’alcool, dalle droghe, dai giochi elettronici, dalle macchinette mangia-soldi.
Il «godimento» che si ricava dal «Masochismo del Reale» (jouissance) ha a che fare con una quantità in eccesso. Ha a che fare con la jouissance più che col piacere, ha a che fare con un «al di là», con ciò che Freud elabora nella seconda topica.
Possiamo perciò parlare di masochismo del sintomo a cui siamo doppiamente assoggettati: al sintomo e alla sua ripetitività così come al godimento che esso contiene.
Un’esperienza di passività masochista è l’analisi stessa: sdraiarsi due o tre volte a settimana su un divano, ad appuntamenti fissati, dire le cose più intime che ci riguardano a qualcuno che resta relativamente silenzioso, richiede del masochismo. Vale a dire, un’accettazione passiva e ragionata di una «situazione», come la chiama Lacan, la situazione di transfert analitico, che ci è «indispensabile».
Siamo in una situazione masochista perché ci è indispensabile.
In realtà la «situazione» non è affatto passiva perché c’è una domanda all’origine dell’esperienza, una domanda d’analisi, quindi una scelta attiva, radicale. Anche se sollecitata dal malessere o dalla sofferenza essa è, in partenza, attiva. Siamo noi a chiederla all’analista.
In questo caso il masochismo sorregge la cura, la rende possibile, è, insomma, indispensabile.
Bibliografia
Fiumanò M., (2016). Masochismi ordinari. Milano, Mimesis edizioni
Freud S. (1892-95). Studi sull’isteria, O.S.F., 1.
Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale, O.S.F., 4.
Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. In: Metapsicologia, O.S.F., 8.
Freud S. (1919). “Un bambino viene picchiato” (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali), O.S.F., 9.
Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere, O.S.F., 9.
Freud S. (1924). Il problema economico del masochismo, O.S.F., 10.
Freud S. (1925). Inibizione, sintomo e angoscia, O.S.F., 10.
Freud S. (1928). Dostoevskij e il parricidio, O.S.F., 10.
NOTE
[1] Fiumanò M., (2016). Masochismi ordinari. Milano, Mimesis edizioni.
[2] Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere, O.S.F., 9.
[3] Freud S. (1924). Il problema economico del masochismo, O.S.F., 10.
[4] Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale, O.S.F., 4.
[5] Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. In: Metapsicologia, O.S.F., 8.
[6] Freud S. (1919). “Un bambino viene picchiato” (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali), O.S.F., 9.
[7] Freud S. (1928). Dostoevskij e il parricidio, O.S.F., 10.
[8] Freud S. (1892-95). Studi sull’isteria, O.S.F., 1.
[9] Freud S. (1925). Inibizione, sintomo e angoscia, O.S.F., 10.
Marisa Fiumanò, Milano
membro AMA dell’Association Lacanienne Internationale (ALI)
*Per citare questo articolo:
Marisa Fiumanò (2025), Il masochismo “indispensabile” del sintomo. Rivista KnotGarden 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 78-92.
Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.
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