“Ora sono felice”
Il masochismo nell’estetica cinematografica: Martha di Reiner Warner Fassbinder

di Rossella Valdrè

(Genova) Psichiatra, Membro Ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Psicoanalitico di Genova.

*Per citare questo articolo:

Valdrè R. (2025), “Ora sono felice. Il masochismo nell’estetica cinematografica: Martha di Reiner Warner Fassbinder. Rivista KnotGarden 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 51-77.

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 “(…) poiché il giudizio clinico è pieno di pregiudizi,

bisogna ricominciare tutto da un punto situato al di fuori della clinica,

dal punto letterario, che diede nome alla perversione”

                                                                                (Deleuze, Il freddo e il crudele, 1967)

 

“Sono felice”, dichiara la protagonista nella scena finale di Martha, il film di Fassbinder del 1974 che, dopo anni di controversie legali, è stato reso noto al pubblico solo al Festival del Cinema di Venezia nel 1994.

Nell’ultima sequenza, paralizzata a vita sulla sedia a rotelle, condannata ormai per sempre ad essere oggetto del marito che l’ha progressivamente uccisa, la vittima si dichiara felice. Forse aveva ragione Lacan (1972) quando afferma che, poiché è felice nel piacere ed è felice nel dolore (nell’aldilà del piacere), in Lust e Unlust, l’uomo è sempre felice.

Questo capolavoro del regista tedesco del 1974, che ha potuto vedersi solo vent’anni dopo, conserva oggi, dopo cinquant’anni, tutta la forza struggente, il

 

fascino e la malinconia di una vicenda di progressiva autodistruzione, di fatale attrazione verso il disimpasto[1].

 

 La scelta tra i film che si sono occupati, in varia forma, di masochismo (e sadomasochismo) in tutte le sue espressioni non è semplice, poiché tutto il cinema d’autore attraversa il masochismo; o nella sua forma perversa, o nello scacco dei personaggi, nelle loro enigmatiche rinunce, nelle loro derive; e lo spettatore, noi tutti, ama seguire queste storie, gode a patire il loro dolore. Vedremo in seguito per quale ragione. Avendo già trattato in miei precedenti lavori la cinematografia di Lars Von Tiers (“dove c’è il masochismo ci sono io”)[2] e di altri cineasti e scrittori (Valdrè, 2020a; 2020b), ho scelto per questa occasione Rainer Werner Fassbinder, geniale e straordinariamente prolifico regista tedesco morto precocemente a trentotto anni, di cui purtroppo molte opere sono di difficile reperimento, che diceva di sé “the only thing I accetp is despair”[3].

Oltre alla tematica, su cui è più frequente che ci si soffermi da un punto di vista psicoanalitico, la cifra poetica del regista permette di indagare anche l’estetica masochista: la forma, il montaggio, ossia il linguaggio cinematografico sono essi stessi masochistici. Ma cosa vuol dire? Il cinema si presta particolarmente bene a questo tipo di ricerca perché, in accordo con Slavoj Zizek, esso “è un’arte autosufficiente”, possiede cioè una sua autonomia di pensiero e “non ha bisogno di un contributo concettuale esterno per pensare la propria verità, né si limita ad una sorta d’intuizione oscura della verità che va poi spiegata” (2004, p. 11). Dunque, l’autonomia del linguaggio cinematografico ci consente di comprendere le storie umane che esso rappresenta anche a partire dal solo linguaggio e dalla forma: sarà l’estetica a raccontare il contenuto. Fassbinder non è l’unico (anche Bunuel e Pasolini, ad esempio, si possono annoverare in questo gruppo), ma è certamente maestro in quest’arte di fondere immagine e vita, forma e narrazione, piacere e dispiacere. Maestro del masochismo.  Sebbene tutta la sua opera, e la sua biografia, rappresentino un sublime manifesto di come il disimpasto eroda le vite dei personaggi, uno dei più significativi sia per la tematica che per l’estetica masochistica è Martha[4].

 

“Vengo subito, papà”

Il film si apre con il padre che la chiama, dalla hall dell’hotel di Roma dove sono in vacanza, e Martha si affretta a raggiungerlo; non vuole che il padre aspetti. Martha, da subito, obbedisce. Nel tragitto le sembra di vedere un sensuale uomo mediorientale, che accenna a spogliarsi per lei; forse una fantasia, a dirci che per Martha, bibliotecaria tedesca di 31 anni, vergine e timida, l’incontro con la sessualità è immediatamente traumatico, è un troppo che eccede. Lei non è adulta, dirà in seguito, sebbene sia adulta; rimasta all’ombra dei severi e freddi genitori, incestuosamente sottomessa al padre, Martha sembra aspettare inquieta un incontro fatale. Turbata dalla fantasia sessuale che l’ha colta impreparata, corre a prendere il Valium; come la madre, le donne del film si rifugiano in bagno come a rifarsi il trucco con gli ansiolitici, così è garantita la maschera di tranquilla felicità borghese.

Raggiunto il padre, i due escono per una passeggiata; al pari di una giovane amante, Martha cerca contatto e affetto, ma il padre la evita: “devi lasciarmi stare, non mi toccare”. Sulla scalinata di Trinità dei Monti, il padre muore di colpo, e poco dopo le viene rubata la borsetta. Sola, senza documenti, smarrita, Martha va all’ambasciata dove, nell’atrio, incrocia quello che di lì a poco diventerà suo marito, un uomo gelido e affascinante: la macchina da presa gira vorticosamente intorno ai due, magnifica sequenza (ad opera di Michael Balhaus)[5] che dipinge il vortice e l’ebbrezza che li coinvolgerà. L’uomo prende subito il posto del padre morto: incipit di poche sequenze che ci fa intravedere tutti gli elementi della storia, al pari dei grandi romanzi.

Un padre che non la vede, che non vuole essere toccato; il carente investimento libidico del padre sulla bambina farà difetto di quel “narcisismo minimo necessario” (Bolognini, 2008), di cui la bambina ha bisogno per vivere riuscendo nel non facile compito di amare sufficientemente sé stessa, oltre agli oggetti. Le implicazioni edipiche segnate dalla mancanza – “lasciami stare, Martha, vuoi sempre toccarmi” – segnano il destino di questa donna che non è più bambina, ma non è riuscita ancora a diventare donna, incestuosamente legata ad un padre che non la vede e a una madre depressa ed alcolista, che ambivalentemente la pretende accanto a sé (tenterà il suicidio quando Martha si sposa), e contemporaneamente la disprezza, “sei un’orribile zitella, mi fai schifo”. Martha è abituata al distacco e agli insulti. Sembra trovare un po’ di pace e piacere solo nel suo lavoro, la biblioteca; la ragazza ama i libri, ha gusto e cultura, ma il destino delle donne del suo ambiente borghese le preferisce mogli a disposizione del marito; nella poetica del regista, i rapporti di coppia (e i rapporti in genere), non possono che avvenire sotto il marchio della sopraffazione e del sadomasochismo. Il cinema di Fassbinder, attraverso l’estetica masochista, è un cinema anche politico: l’essere umano è assoggettato al potere, ad ogni forma di potere e quanto all’amore, pur necessario, si scopre essere “lo strumento migliore, più insidioso ed efficace di oppressione sociale”.[6]

Gli elementi formali che disegnano, come in un quadro barocco, l’estetica masochistica del film non si soffermano tanto sui dialoghi, non è il linguaggio a pilotare la storia, ma gli oggetti, le inquadrature, il tutto avvolto nel cosiddetto ‘ipersensualismo’: specchi, colori accesi, ambienti tetri e stretti, quasi sempre al chiuso delle stanze, porte, ombre, personaggi dai corpi nitidamente definiti e iperrealisti. L’ombra minacciosa del cappello di Helmut quando bussa alla porta, la ripetizione ossessiva del nome, Martha, alla fine di ogni frase che lui le rivolge, volti che sembrano manichini, senza vita, la magrezza mortuaria di Martha, quasi a marcarne fragilità, inconsistenza e il suo statuto di oggetto di spoliazione. Atmosfere di attesa, sospensione, una tensione costante: ci si sente subito calati nell’universo masochistico. Gli elementi formali ricorrenti nell’estetica masochistica, infatti, sono rappresentati da: sovra-sensualismo, sospensione, ripetizione, stilizzazione della scena, specchi (Almerini, 2013). Li ritroviamo tutti nel film. Pochissimi esterni, ambienti claustrofobici, da cui non si scappa. La Natura è assente; solo desolati e impeccabili paesaggi umani. Specchi come significanti centrali del mancato mirroring e del bisogno umano di rispecchiamento: tornata a casa, Martha incontra la madre e vorrebbe parlare con lei, ma ogni fredda conversazione avviene attraverso specchi: nessuno vede nessuno. Anche in seguito, nella disperazione del matrimonio, Martha si guarda più volte allo specchio, ripetendo i suoi dati anagrafici, come a voler ricordare a sé stessa chi è, se esite, se è esistita; specchi per creare straniamento, distacco da sé stessi. Mancanza di rispecchiamento dagli oggetti primari ed un’identità immatura e inconsistente, sempre alla ricerca dell’approvazione dell’altro: le prime sequenze parlano. Non occorre sapere nulla.

Poco dopo la scena a Trinità dei Monti, ad una cena nuziale per il matrimonio di un’amica, Martha rivede Helmut, il fascinoso sconosciuto incontrato all’ambasciata. Nel loro primo dialogo, Helmut dichiara che le ha “acceso il desiderio”, ha intuito essere una vergine, non la trova bella né attraente, è troppo magra; e inoltre, puzza.

Martha ride, come fa spesso. Lui la bacia con violenza e le morde il collo; vampirismo che precederà ogni atto sessuale. Marchiata sul collo dal suo padrone, Martha accetta rapidamente di sposarlo. Purché qualcuno mi prenda, sembra dire, faccia di me qualcosa, io non so chi sono. Magari mi voglia anche bene. È importante qui sottolineare come, a differenza del classico perverso narcisista che si presenta come tenero e solo progressivamente rivela il suo sadismo[7], Helmut da subito non dissimula la sua natura crudele, non si finge mai tenero ai fini della conquista; surrogato paterno, egli svela subito le sue carte, e Martha entra nel gioco accentandolo.

La madre tenta il suicidio e verrà rinchiusa, da Helmut, in ospedale psichiatrico; Martha tenta flebilmente di chiamare un medico, ma Helmut lo impedisce. Il sadico ha trovato il suo oggetto, il suo oggetto-scarto, dove può liberarsi del brutto e dello sporco che rifiuta in sé e accendere il vuoto narcisistico interno (“mi hai acceso il desiderio”); si eccita quando la vede in qualche modo stremata, o perché ustionata in luna di miele per averle proibito la crema solare, o quando vomita dopo averla costretta a salire sulle giostre.

Se appare chiara la posizione di Helmut, sadico perverso narcisista (Racamier, 1992), più ambigua e interessante è la protagonista, Martha: è la sua emblematica figura, infatti, che dà nome al film. Nella poetica del regista, i personaggi femminili sono centrali (Veronika Voss, Petra Von Kant, Lola, Lili Marlene, Nora Helmer[8] ); lui stesso disse che esprimeva meglio ciò che sentiva, quando lo faceva attraverso un personaggio femminile. Martha non si oppone a nulla, sembra comprendere la violenza grottesca a cui è sottoposta, odia e soffre il progressivo isolamento in cui lui la costringe a vivere (le impedisce di lavorare, di telefonare ed infine di uscire di casa), detesta la musica e i libri che Helmut la costringe a leggere come un automa, ma non si oppone. Una giovane donna colta e sensibile, di buona educazione, che coltivava confuse e belle speranze, con pacata e piatta sottomissione accetta la progressiva spoliazione identitaria da parte di Helmut, si offre, diremmo spontaneamente, all’omicidio psichico (Mollon, 2002) messo in atto, con la calcolata precisione del perverso narcisista[9], giorno dopo giorno.

Ad una vicenda umana drammaticamente intensa, corrisponde una messa in scena spoglia, apparentemente fredda e monotona, al limite del grottesco: siamo calati in un universo straniante.

 

Martha non si ribella, si adatta alla rappresentazione che Helmut ha costruito di lei, un oggetto di cui godere sessualmente quando ne ha voglia, da maltrattare e plasmare[10], come presa in una sorta di ambigua fascinazione: l’educazione è, in Fassbinder, violenta per definizione.

Martha sembra aver scelto una posizione masochistica: per carenza di assetto identitario, per ricerca di riconoscimento, per evitare l’assunzione della responsabilità di diventare un soggetto; vi è un guadagno, in tutto questo. L’invocazione di una “scelta”, scrive De M’Uzan (2001), “è evidentemente provocatoria, perché questo avviene all’insaputa del soggetto” (p. 141); tra i mezzi che il soggetto ha a disposizione per gestire la quantità, per gestire le tensioni, il migliore sarebbe certamente la via mentale, ma quando questa è insufficiente si può optare per la psicosi (e alla fine Martha diventerà delirante), per la psicosomatosi, e il masochismo, uno degli strumenti di cui disponiamo per gestire l’eccesso. Il nodo del problema: la quantità. De M’Uzan, sulla scia di Freud, definisce i masochisti “schiavi della quantità” (1984); ma poiché ciascun essere umano ha a che fare con l’eccesso (e la mancanza), in ognuno di noi alberga la possibilità della “scelta” masochistica. Questa comporta, abbiamo detto, un guadagno narcisistico innanzi tutto. Come è noto, Freud aveva intuito il legame strettissimo e potenzialmente mortale tra masochismo e narcisismo, quando scrive che “persino l’autodistruzione della persona non può compiersi senza soddisfacimento narcisistico” (Freud, 1924, p. 16) e che, sul versante corporeo

 

“nel dolore corporeo si produce un investimento elevato, che possiamo chiamare narcisistico, delle zone dolenti del corpo; tale investimento aumenta costantemente e agisce sull’Io in modo per così dire svuotante” (Freud, 1925, p. 316).[11]

 

Green (1983) parlerà di “narcisizzazione della sofferenza” e, nella donna, di un “masochismo basale” conseguenza di un trauma originario, una dequalificazione oggettuale per Giannakoulas (2016). Tuttavia, nel cinema di Fassbinder tutti gli esseri umani, uomini e donne, scivolano in derive masochistiche; qui vediamo Martha, ma è lo stesso con i personaggi maschili (spesso omosessuali, come il regista) di Querelle de Brest (1982) e con Erwin/Elvira, lo struggente protagonista di Un anno con 13 lune (1978), e tutti gli altri. Si ha l’impressione che il personaggio non possa fare diversamente, che una spinta interna (inconsapevole?) nutra la coazione al disfacimento, alla morte, aspirazione ultima del masochista, indipendentemente dal genere.

Svuotante, scrive Freud: un termine significativo. Martha non trae piacere sessuale dalla sua passività, ma i molti, continui dolori del corpo svuotano l’Io di ogni responsabilità, individuazione, di ogni presa sul mondo. Torneremo su questa vertigine, su quest’ebbrezza dello svuotamento, del cedimento già annunciato dalla scena vorticosa del primo incontro. Come scrive Susan Sontag:

 

“Secondo Reich, il gusto per la sofferenza del masochista non proviene da un amore per la sofferenza ma dalla speranza di suscitare, mediante la sofferenza, una forte sensazione (…). Ma del perché la gente cerchi la sofferenza vi è anche un’altra spiegazione, opposta a questa e forse anch’essa pertinente: che la cerchino non per sentire di più ma per sentire di meno” (1989, p. 36, corsivo mio).

 

È lecito chiedersi, infatti, se Martha, se tutte le Marthe imbrigliate in questi rapporti, ricavino un qualche tipo di piacere; se, vale a dire, in fondo ogni masochismo è in qualche modo perverso, anche quando il piacere non è sessuale. Il masochismo morale, come Freud specifica, “non è affatto morale” (1924, 16); si può dire che il masochista morale gode di una punizione morale come se fosse sessuale, una sorta di perversione etica. Allora ogni forma di masochismo rientra nel Lustprizip, paradigma fondante della psiche per Freud? È ciò che intende Lacan quando afferma che l’uomo è sempre felice! Ma è anche vero, e la clinica lo conferma, che si cerca il dolore anche per non soffrire; come nelle autolesioni degli adolescenti, il dolore fisico serve proprio a non avvertire quello mentale (Valdrè, 2024[12]; Le Breton, 2010). Un’anestesia, un oppiaceo. Così è anche per Martha.

Scale, specchi; il ritorno scenico assillante degli specchi fa pensare a quanto colto da Stolorow (1975)[13], e prima ancora da Reik (1941) che, al pari del narcisista, ciò che il masochista cerca sia il rispecchiamento mancato, vedersi, essere visto. Martha cerca di riparare un sé ferito, la “narcissistic mortification” (Stolorow, ibid., p. 445), accetta e ha bisogno di un dolore acuto “per rafforzare il suo sentimento di avere un sé coeso” (ibidem). La abbiamo vista incapace di esprimere la sua opinione, come alla cena nuziale, sempre pronta ad aderire all’altro, a conformarsi; solo alla morte del padre si era concessa di fumare. La spirale su Martha si stringe; Helmut le proibisce di uscire, la isola completamente e, al colmo della crudeltà, uccide il gattino che Martha prende per non impazzire di solitudine; è lì, con il gattino morto in mano, che Martha capisce che Helmut uccide tutto ciò che tocca.

 Capisce che il gattino è lei, la sé stessa vitale; capisce che la sta uccidendo.

Ma poiché tutto è paradossale nel masochismo, c’è angoscia in Martha, anziché sollievo, quando il marito è assente per lavoro (la Angst masochistica dell’attesa, della sospensione); senza il suo persecutore, l’identità si sfalda, e l’oggetto esterno sadico è diventato un crudele Super-io interiorizzato: ora Martha non fuma anche quando è sola, legge i brutti libri che lui le ha imposto. Non sa più cosa le piace; la costante erosione della verità, anche sensoriale, operata su di lei dal marito, la fa dubitare di tutto. Più che entro la logica del piacere, il personaggio di Fassbinder (come altre figure del regista) non gode sessualmente, ma ha bisogno di sottomettersi per accedere ad una consistenza soggettiva. I timidi tentativi di ribellarsi sono accennati, curiosamente, non per le violenze fisiche e sessuali, ma quando le impone di non ascoltare Donizzetti e leggere i libri che vuole lui. Ma Martha si sente in colpa; una sorta di senso di colpa edipico (Helmut ha i gusti del padre, le ricorda il padre) che chiama in causa il ruolo del Super-io e il masochismo morale, a testimonianza che, malgrado l’utilità descrittiva dei tre tipi di masochismi descritti da Freud, essi possono intrecciarsi nelle espressioni della vita soggettiva. Centrale il ruolo dell’amore per il padre, con cui il film è iniziato; Freud ci ricorda infatti, in Un bambino viene picchiato (1919), che “è proprio questa combinazione di senso di colpa e erotismo l’essenza del masochismo” (p. 41).

Non, quindi, sulla violenza del corpo, sugli stupri che continuamente subisce, sul volto tumefatto e i morsi sul collo che Martha tenta un’opposizione; ma quando le viene sottratta la Cultura, il logos, il respiro di possibili sublimazioni.

Come spesso accade anche nella vita e nella clinica, Martha incontra chi la vuole aiutare, il giovane collega Kaiser, unico ad accorgersi, empaticamente, che Martha è in pericolo e dovrebbe andarsene. Solo il terzo, la funzione terza rappresentata da Kaiser, qualcuno che ha saputo vederla, potrebbe farla uscire dall’ “affare masochistico” (Kernberg, 1988); ma le cose precipitano.

Al sentire per bocca di un altro il termine ‘sadico’, che lei ha negato forzosamente, Martha urla, scappa, ha una violenta reazione scomposta e, ormai agitata e delirante, torna a casa dove trova Helmut, come sempre pronto per un rituale sessuale, che si prospetta più sadico del solito (“ti ho portato un regalo”).

Convinta che Helmut voglia ucciderla, scappa da Kaiser. Ormai allucinata, vede Helmut in ogni uomo col cappello e, convinta che la stia seguendo per ucciderla, spinge Kaiser ad accelerare la corsa in macchina; il giovane trova la morte in un incidente durante la corsa e lei resta paralizzata definitivamente alle gambe. L’oggetto cattivo-Helmut (e tutti quelli che lo hanno preceduto) è diventato un persecutore interno; come avviene in certe nostre cure particolarmente difficili (Mangini, 2024), il masochista (morale) deve far morire l’oggetto di cura (Kaiser), la cura stessa, e paralizzare sé stesso nella ripetizione.

La sequenza finale vede Martha in carrozzella, spinta da Helmut che la riporta a casa, in ascensore. Per sempre uniti.

Ma ecco un dettaglio fondamentale. Quando il medico le comunica che resterà paralizzata, il volto di Martha si illumina in un sorriso. Fassbinder ci mette in guardia dal cadere nella trappola di pensare che lei abiti esclusivamente la posizione di vittima; come le eroine dei film di Lars Von Tiers quando finalmente muoiono dopo vessazioni, sacrifici e umiliazioni, sono felici. Sorridono, l’eccesso si è placato. È la pace finalmente, il Nirvana, la ‘funzione dionisiaca’ (Horney, 1937) del masochismo.

L’inquadratura finale, davvero indimenticabile, concentra il cuore stilistico e tematico del film.

La vittima sceglie il proprio carnefice, fin dall’inizio; “Martha raggiunge quello che vuole veramente solo quando non è più autosufficiente” (Almerini, 2013, p. 28). Nonostante il film, come anche Le lacrime amare di Petra Von Kant, suscitò la reazione delle femministe per questa visione della donna come intrinsecamente masochista, io credo che Fassbinder colga profondamente, e lo esasperi nella sua cifra stilistica, l’intima vocazione del personaggio (indipendentemente dal genere): mettersi completamente nelle mani dell’altro, di farsi oggetto, ma anche, attraverso l’apparente disfatta, avere ora su di lui pieno potere.

Quando un intervistatore gli chiese:

 

  1. Forse è anche un potere della vittima quello di degradare gli altri al ruolo di carnefici
  2. F: “È naturale. C’è sicuramente un’interazione. Comunque, credo che sia la vittima a cercarsi il carnefice e non viceversa. Non so, può darsi che sia politicamente sbagliato, ma nella sfera privata la vedo così.[14]

 

Ora l’ambiente non è più la ridondante e tetra villa di Helmut: ora le mura bianche dell’ospedale, l’ascensore nitido e nulla più, testimoniano sia della progressiva spoliazione, sia dell’essere giunti all’osso dell’intima, inconscia vocazione del personaggio: “(…) e finalmente Martha può essere sé stessa e non è costretta a mascherarsi; è schiava ormai di fatto, proprio come voleva” (Nicolini, 2017, p. 61). Si è realizzata l’aspirazione ad essere totalmente un oggetto; come disse una mia paziente raccontando la sua unica (e spesso rimpianta) esperienza masochistica con un uomo sadico: “volevo essere una cosa”.

Escludendo definitivamente l’impaccio di Eros, portando alla morte Kaiser, Martha ha così legato l’oggetto cattivo definitivamente a sé, lui dovrà portarla, averne paradossalmente cura. Non è più chiaro chi sottometta chi, chi trionfi su chi. Lacan lo dice con parole sue, “il livello più alto a cui il perverso può aspirare è il masochismo, che è il massimo godimento del reale” (1975-76). Come evidenziato da Deleuze (1967)[15], il masochista non va ridotto a uno schiavo sofferente nelle mani del padrone; sarebbe una lettura ingenua. Dalla prima scena, quando Martha ride lusingata al sentirsi definire brutta e puzzolente ma anche oggetto di desiderio, fino all’ultima in cui esibisce la sua sconfitta/trionfo, il personaggio sembra aver obbedito ad una logica interna, destinale, ad un desiderio inconscio composito, nutrito di inconsistenza soggettiva, mancanze primarie, ingenuità, desideri edipici e preedipici frustrati, soddisfazione del senso di colpa inconscio, pressioni sociali e culturali dell’ambiente, aspettative femminili condivise; è complesso, il masochismo, ma pur nel riconoscimento di questi poliedrici aspetti, io credo, essenzialmente, Martha volesse ridursi a oggetto, sottomettersi all’Altro, e godere di questa posizione. Inerme: Hilflosigkeit che è forse limite costitutivo della condizione umana. Fassbinder non fa sconti: il personaggio ‘sceglie’, pur con le premesse viste in De M’Uzan; in controcorrente con l’attuale enfasi mediatica vittimaria, per cui la vittima è colui/colei che subisce passivamente e va risarcita, Martha coglie una verità umana molto più scabrosa: che siamo corresponsabili del nostro destino, e che la vittima non è buona per definizione, può presto imparare a sfruttare la sua posizione. C’est le masochiste le vrai maitre, colui che fa “della narcotizzazione del principio di piacere un sur-plaisir. È là il principio del godimento masochistico” (Assoun, 2007, p. 81).

  • Sei felice, Martha?
  • Si, sono felice

 

Il sintomo irriducibile del vivente

Quando iniziai le mie ricerche sul masochismo (esito naturale delle precedenti sulla pulsione di morte)[16], rimasi colpita dalla relativa carenza di letteratura psicoanalitica italiana su un argomento che a me appassionava tanto, e mi pareva fondamentale nella clinica e nella comprensione del vivere sotto ogni aspetto. Con alcune eccezioni, ovviamente; oltre ai lacaniani, che invece mantengono sul tema un interesse vivo (come Fiumanò, 2016, Benvenuto, 2015 e Recalcati, 1991), anche alcuni italiani (Mangini, 2024; Baldassarro, 2024; Conrotto, 2007; De Masi, 1999; Masciangelo, 1973). Forse ho tralasciato qualcuno, ma non credo molti. I testi principali sull’argomento incredibilmente non sono stati tradotti, come L’enigme du masochisme (curato da André, 2000) e Masochism: current concept (curato da Cooper, 1981), tanto per fare due esempi. È stata ed è la psicoanalisi francese, come è noto, poiché corre sui binari del lascito metapsicologico freudiano, ad occuparsene con più profondità, ricchezza e finezza di contenuti. Per quanto riguarda i kleiniani, il termine ‘masochism’ non esiste nemmeno nel dizionario kleiniano della Bott Spillius (2011); si parla solo di aggressività.

Il grande patrimonio sul masochismo, quale derivato di pulsione di morte, ce lo ha lasciato Freud e gli autori che lavorano il suo pensiero e, sul lato dell’attività difensivo-narcisistica, gli americani citati. Per il resto, bisogna ricorrere ai filosofi (Sartre, Deleuze, Deridda, Moroncini, e molti altri), e soprattutto agli artisti, come ho cercato di fare con Martha, chiedendolo ai poeti (Freud, 1931); allora siamo davvero ricompensati della nostra ricerca. Eppure, le varie espressioni del masochismo, potremmo dire i masochismi, infestano le nostre vite: nella stanza d’analisi con tenaci reazioni terapeutiche negative, pazienti che “soccombono al successo” (Freud, 1916), compreso il successo della cura, nelle bizzarre e diffuse forme di godimenti sessuali, nella vita individuale e sociale in genere. Infinite sono le vie attraverso cui boicottiamo Eros, lo mettiamo a tacere, dalle forme più tenui alle devastazioni viste nel film. Trans-clinico, transculturale, immanente alla vita stessa nella forma primaria o erogena, dal masochismo non si sfugge; ossia dalla necessità della sua versione garante della vita, per il legame con Eros, e dal rischio della sua versione di morte, slegante, nella dualità che governa la vita psichica come Benno Rosenberg (1991), radicalizzando Freud, ha così brillantemente messo in luce. “Sintomo irriducibile del vivente”, è la bella definizione di Assoun (2007): là dove c’è il vivente, c’è il masochismo. Eppure. La psicoanalisi italiana è impegnata ad esplorare soprattutto il narcisismo, a cui dedichiamo testi e congressi, lasciando il masochismo ai filosofi e ai poeti. E alle solitarie battaglie nella stanza d’analisi. Si dimentica infatti, come visto prima e come enunciato da Freud (che non svilupperà questa intuizione), che masochismo e narcisismo vanno insieme; lo hanno evidenziato, da prospettive diverse, sia Stolorow che De M’Uzan: richiamando tutta la libido nell’Io, quest’Io mortificato narcisisticamente vive un suo grottesco momento di gloria. È pur vero, come scrive Green, che nel masochismo morale il legame con l’oggetto è sempre mantenuto, giustificando ad esempio dolorose analisi interminabili; ma si può anche accogliere la provocazione di Benvenuto (2015), secondo cui quelli che Freud chiamava masochisti morali possono corrispondere, almeno in parte, a certe gravi personalità narcisistiche di oggi: il fine è sempre fallire e far fallire. La questione è complessa.

Il masochismo è prima di tutto un problema economico, non fa tornare i conti dell’economia psichica se questa la si pensava governata dai soli principi di piacere e realtà, ma non è solo un problema economico; è un problema umano tout court.

Questo forse spiega la riluttanza ad occuparsene e perfino, a mio parere, a tentare di dimenticare i registi che hanno saputo davvero metterlo in scena, come Fassbinder (e un certo Pasolini): esso è scandaloso, un vero “peccato contro il buonsenso” (Rosemberg, 1991, 1), rimette continuamente in gioco ciò da cui deriva, la pulsione di morte.

 

La vita contro la vita

Nel percorso del pensiero freudiano, come sappiamo il masochismo da secondario, semplice ritorsione del sadismo contro l’Io (1915), diventa progressivamente primario, fondativo, nodo originario della vita psichica che, solo legandosi ad Eros, evita lo sfaldamento dell’organismo che, diversamente, si lascerebbe andare.[17] Ipotizzo, tra altre ragioni, che in questa scabrosità risieda gran parte della resistenza a studiare il masochismo: riconoscere che la vita può andare contro la vita, non tanto gli oggetti contro il soggetto (cosa da cui si può sempre difendere), ma che la morte risieda nel soggetto. Perciò risulta ostico, a una parte della psicoanalisi, accettare questa grande, straordinaria congettura freudiana, che alcuni di noi invece riconoscono in pieno: la vita contro la vita!

“Non voglio distruggere niente, ma soltanto non esistere più” (Fassbinder, 1986, 56)

 

Detto diversamente: l’indifferenziato contro l’individuazione, lo slegato contro il legame. Nessuno obbliga Martha a sposare un uomo che da subito manifesta il suo sadismo; la società, certo, invita la donna a sposarsi, a mettersi nelle mani dell’uomo; ma infine Martha sarebbe un soggetto capace di autodeterminarsi. E invece no. La domanda è: perché? Superato l’abbaglio del fascino iniziale, perché Martha resta.

L’essere umano, nel masochismo primario, nasce alla vita nella totale inermità – Hilflosigkeit – nelle mani dell’altro, nasce con una naturale passività, potremmo dire cedevolezza, che potrà sempre in seguito essere reinvestita o meno. Come scrive Laplanche, “Freud ebbe il grande merito e la grande audacia di collocare la coppia attività-passività alle origini […] un modo di opposi, anticipatamente, a quello che oggi è il modo più ‘moderno’ di descrivere la relazione adulto-bambino, sotto il capitolo dell’interazione” (2016, p. 126). È, da subito, un’asimmetria: Fassbinder ce lo ha mostrato dalla prima scena. È solo nell’inquadratura finale che i due, nell’ascensore, sono finalmente alla pari.

Ora, mettere assieme vita e morte –come fa Deridda (1975-76) con la vie la mort, senza congiunzione– è un affronto che noi facciamo: al principio di non contraddizione (cosa possibile solo restando in un territorio inconscio), all’economia psichica (da cui deriva il titolo del saggio di Freud del ’24), ma è un affronto per la filosofia e tutte le scienze umane, compresa la psicoanalisi.

Tutto negativo? Ha ragione di esistere, il masochismo? Per intessere e tollerare legami sociali, occorre una quota di quello che ho chiamato ‘masochismo necessario’ (Valdrè, 2020a), un certo rinunciare alla nostra onnipotenza; ciò che Helmut non riesce a fare, ogni legame gli è interdetto. Helmut non sa inibire le pulsioni parziali di cui è vittima, il sadismo innanzi tutto, non sa calmierare il godimento; egli è protagonista puro della morte, poiché la ricerca totale di godimento, di aldilà del piacere, è una corsa sfrenata verso la morte.

Le vie la mort rappresenta il vero e proprio impasto pulsionale, che segna tutta la nostra vita, anche quotidiana, senza che ce ne rendiamo conto; il masochismo, “testimonianza dell’esistenza dell’impasto pulsionale” (Freud, 1924, p. 16), ne è il principale rappresentante. Era in fondo vitale, Martha, quando incontra Helmut; segnata dal mancato rispecchiamento degli oggetti primari, era tuttavia una donna che amava i libri, la musica, cercava ingenuamente un amore per il quale si era conservata vergine. Ma lo slegamento, quando il masochismo erogeno è così debole, è dietro l’angolo.

Il film è il racconto potente e artisticamente perfetto di un progressivo disimpasto; la morte prende sempre più il posto della vita. La morte è cercata.

L’esperienza artistica stessa, non soltanto perché tematizza il masochismo, ma è essa stessa esempio dell’impasto (non è un caso che sia il regista che lo scrittore da cui il film è tratto siano entrambi morti per overdose in età piuttosto giovane); perciò ci aiuta ad un godimento accessibile, non distruttivo.

Non possiamo comprendere l’esperienza artistica solo dal lato affermativo, solo dal lato della vitalità, dell’amore alla vita; no, essa ha bisogno di essere intesa anche secondo un’altra polarità, quella che Freud ha teorizzato nella pulsione di morte e nel masochismo.

Quando si crea qualcosa, si è di solito dentro un’angoscia, e quel creare in cui moriamo parzialmente, fonde vita e morte. Non si sa essere creativi, se non possiamo morire un po’; se seguiamo il rilancio continuo della vita, non c’è arte. L’arte nasce in commistione con la pulsione di morte; tenta da sempre di rappresentare, da un lato, e sfuggire, evacuare dall’altro, la morte.

Il cinema si presta mirabilmente sia a tematizzare che a farsi estetica del masochismo, per il suo alto grado di impasto, di intrico pulsionale e di capacità visionaria.

Avvertiamo per tutto il film la dimensione vertiginosa dell’esistenza; una vertigine che tiene spettatori e personaggi in costante bilico, attesa. Come quando i bambini fanno quei girotondi veloci all’unico scopo di cadere a terra, lasciarsi andare. Chi non ha mai avvertito questa tentazione, che si oppone al processo di individuazione, di differenziazione, alla fatica di diventare e rimanere individui? Tentazione di sparire, di sparire come soggetti, sempre in dialettica con lo statuto opposto; Martha in più occasioni, dalla cena nuziale in poi, potrebbe esprimere la sua opinione, presentarsi come un soggetto; tentenna, ma non lo fa, sceglie la via breve della passività, di accollarsi al senso comune, della gregarietà: farà sua l’idea degli altri. Esiste dunque un masochismo necessario, ponte verso la Kultur (Conrotto, 2007; Valdrè, 2020), ed uno gregario, mortifero, che si annichilisce sull’oggetto; in questi casi potremmo chiamare in causa un insufficiente masochismo primario, un plafond debole (La Scala, 2017) associato anche ad un deficitario narcisismo.

Tentazione dell’inorganico, dell’inanimato, che convive con il versante ‘necessario’; alla stregua del narcisismo sano, consente la vita.

Gli artisti, e chi fa cinema in particolare, è capace come nessun altro a restituirtici questo fascino ambiguo dell’ebbrezza, del cedimento. La tensione all’abbandono, entro i giusti limiti consente il legame e il legame sociale, ci rende adatti a ricevere, a non imporsi.

Infine, non è detto che l’esodo dalla vita, il farsi oggetto, il mettersi nelle mani di qualcuno, non abbia un valore politico: Martha, che cercava tanto l’amore del padre, è diventata qualcuno di cui ora ci si occupa, ci si occuperà a vita (il sorriso finale). Che successo! Quello del masochista è un “trionfo nella sconfitta” (Reik, 1941, p. 212).

Questo tipo di lettura ci allontana dalla sessualità e anche, per certi versi, dall’erotizzazione della morale: forse Martha ha fatto la sua ribellione, forse trova inconscio piacere nell’essere diventata eterno oggetto di accudimento. In fondo, camminare non le serviva. C’è di scabroso, nel masochismo, qualcosa che ci riguarda tutti, ma che preferiamo non vedere. Che le spinte centrifughe, verso gli oggetti siano continuamente contrastate da altre centripete, dall’egoismo della pulsione, la vita che tende a tornare alla sua pace d’origine. “Eros – scrive Deleuze – è ciò che rende possibile l’instaurazione del principio di piacere, ma sempre necessariamente trascina con sé Thanatos” (1967, p. 128).

 

WhY is film pleasurable?”

Vorrei concludere con la domanda di apertura del saggio della studiosa Gaylyng Studlar, In the Realm of Pleasure (1988): perché ci piacciono i film, anche quelli così dolorosi? E prosegue, “la produzione del piacere nello spettatore è un processo complesso, ma il legame tra il piacere cinematografico e la sessualità è ovvio” (ibidem).[18]

Torniamo così all’importanza non solo del masochismo come tematica, ma alla natura dell’estetica masochistica cinematografica stessa. La visione di Martha, come di diversi altri film analoghi, comporta una certa sofferenza. Una tensione costante, un senso di attesa catastrofica, a tratti un disgusto, e insieme quel senso di vertigine detto sopra; viene da dire “ora basta!”, eppure si sta lì, a subire. Lo spettatore è coinvolto in tutti gli elementi dell’estetica masochistica visti prima: il sovrasensualismo, la ripetizione, la tensione verso l’attesa (del piacere che non arriva), gli specchi, la stilizzazione della scenografia, l’assenza quasi totale di esterni. Tutto avviene nel claustrum di case eccessive e umanamente inabilitabili, la Natura è assente. Personaggi femminili prevalenti, assenze di padre (morto, malato, scomparso).

Tralascio le molte e note teorie psicoanalitiche sul cinema (Metz, 1977; Zizek, 2020) che chiamano in causa il piacere delle pulsioni parziali che si attivano nello spettatore, come voyerismo e sadismo oltre all’identificazione, per accennare, a conclusione di questo contributo, all’ambiziosa tesi della Studlar, secondo cui il piacere spettatoriale del dispositivo cinematografico dipenderebbe dalla posizione masochistica inconscia, preedipica, che lo spettatore occupa. Si tratta del piacere di essere dominato, del piacere della passività e della regressione. Il rapporto schermo-spettatore, per l’uomo come per la donna, è come se riattivasse una fase poco differenziata, cosiddetta dream-scene. Inoltre, la struttura ellittica e ripetitiva del film (e in Fassbinder la ripetizione è elemento costante, ad esempio nei dialoghi) rappresenta una soluzione estetico-formale del masochismo fondato sulla sospensione, e non sull’appagamento del desiderio. Sul piano fantasmatico, il masochismo prevede la reversibilità delle posizioni soggettive, lo scambio di ruoli di potere (chi domina, alla fine?); il testo masochista presenta personaggi frammentati, poco coerenti, dai comportamenti apparentemente immotivati; una logica slegata, non-logica, e con la quale però lo spettatore si cala profondamente. Non è tanto la mente del personaggio che si offre all’introspezione, ma le immagini, i dispositivi testuali; non entriamo nella mente di Martha, noi la vediamo.

Vero maestro dell’estetica masochista, il regista, con l’estetica, trascina con sé anche il contenuto e il senso.

Insomma, quell’indifferenziazione che tanto il soggetto teme, quella tensione al cedimento, allo slegamento, la vie la mort, cerchiamo di evitarla nella vita, ma abbiamo bisogno di ritrovarla nelle occasioni consentite, e il cinema è una di queste. Quella che, secondo la Studlar, ha il maggior legame con la sessualità; concordo con i molti registi, compreso Fassbinder, che sembrano darle ragione. In film, come Martha, nei quali non accade quasi nulla, o dove tutto è già prevedibile dall’inizio, come spettatori siamo trascinati in un’attesa, una sospensione piacevole e spiacevole al tempo stesso che è propria dell’estetica masochistica: una tensione dualistica in cui desideriamo, insieme al personaggio, e insieme temiamo che il desiderio si concluda. C’è davvero del tragico nel masochismo: cercando il suo annullamento nell’altro, cercando di diventare oggetto per liberarsi della propria soggettività, il personaggio fassbinderiano finisce per imbattersi nella propria soggettività, in quel reale che ha voluto sfuggire, l’essenza di sé stesso, e lì trova il suo annullamento.

 

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NOTE:

[1] [Nota della curatrice. In questo volume le parole che utilizza Freud, Mischung/Entmischung, verranno tradotte, dai diversi Autori, utilizzando i termini italiani impasto/disimpasto, oppure intricazione/disintricazione. Io problema traduttivo dal tedesco ad altre lingue, in questo caso l’italiano, è assai complicato perché implica delle questioni concettuali di una certa rilevanza. Rimando, per un approfondimento, all’edizione italiana del Dizionario freudiano di C. le Guen (2008), a cura di A. Lucchetti (2013).]

17 Così dichiarò il regista nel 2014, alla presentazione di Melancolia dove, in un’infelice intervista, si mise ad elogiare il nazismo; naturalmente l’intervista, giudicata “un suicidio professionale” e di cui in seguito si scusò, fu un atto masochistico all’apice di una carriera che in seguito non fu più come prima. Von Tiers, come Fassbinder, non hanno mai nascosto le loro depressioni e tendenze suicide.

[2] Così dichiarò il regista nel 2014, alla presentazione di Melancolia dove, in un’infelice intervista, si mise ad elogiare il nazismo; naturalmente l’intervista, giudicata “un suicidio professionale” e di cui in seguito si scusò, fu un atto masochistico all’apice di una carriera che in seguito non fu più come prima. Von Tiers, come Fassbinder, non hanno mai nascosto le loro depressioni e tendenze suicide.

[3] In “I dont just want you to love me”, documentario di Hans Günter Plaum, 2018.

[4] Il termine ‘masochismo’ è esplicitato in Un anno con tredici lune del 1978, girato poco dopo il suicidio del compagno, il protagonista (un transessuale che si ritrova rifiutato alla fine da tutti) verso le battute finali dice che “quello che chiamano masochismo mi serve forse ad avere un’immagine più chiara di me stessa”. Il personaggio morirà suicida.

[5] Direttore della fotografia.

[6] Da un articolo sui film di Douglas Sirk (che Fassbinder ammirava molto) del ’71 su Fermsehen und Film.

[7] Si veda Gaslight, classico del ’42 di George Cukor che ha dato nome al gaslighting, termine che indica manipolazione all’interno della coppia.

[8] Rivisitazione di Casa di bambola di Ibsen, del 1974, in cui Fassbinder rende il finale più amaro.

[9] Adotto la definizione di Racamier per la precisione con cui descrive questi tipi di personalità, il loro impatto devastante sull’altro che deve “pagare il conto” dei lutti e delle responsabilità che il perverso narcisista denega in sé, sostenuto da proiezione e scissione. Non mi soffermo su questa descrizione, non essendo Helmut l’oggetto della trattazione, ma rimando all’Autore.

[10] Dinamica simile in Primo amore (2004) di Matteo Garrone, dove un uomo (realmente esistito) obbliga la fidanzata a diventare anoressica, fino alla morte.

[11] Corsivo mio.

[12] In uscita Ottobre-Dicembre 2024: Valdrè R. “Farsi male per non soffrire: il paradosso dei ‘masochismi’ tra Freud e Le Breton, Rivista Il Litorale.

[13] Considero quello di Stolorow, The Narcissistic Function of Masochism (and Sadism) apparso sull’IJP nel 1975, uno dei più significativi contributi del dopo Freud.

[14] Intervista di Fassbinder con Wolfgang Limmer, in: Spagnoletti G. (1983): “R. W. Fassbinder”, ed. Del Grifo, Siena.

[15] La cui lettura del masochismo, di grande interesse, va specificato essere non clinica ma, come lui stesso afferma, letteraria.

[16] Valdrè R. (2016; 2024).

[17] La “teoria polivagale” di Porges (2011) sembrerebbe supportare neurofisiologicamente questi fenomeni, dove la prevalenza del sistema parasimpatico (il sistema del cedimento), eccederebbe sul sistema simpatico, portando a morte. Si suppone che alcune misteriose ‘morti in culla’ possano essere legate a questo meccanismo (S.W. Porges (2011), La teoria polivagale, Trad.it 2014, ed Fioriti).

[18] Traduzione mia.

Rossella Valdrè, Genova.

Centro Milanese di Psicoanalisi

scarlet@cocco.net

 

*Per citare questo articolo

Valdrè R. (2025), “Ora sono felice. Il masochismo nell’estetica cinematografica: Martha di Reiner Warner Fassbinder. Rivista KnotGarden 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 51-77.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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