Sezione Locale della Società Psicoanalitica Italiana
KnotGarden 2025/2 “A partire da: Il problema del masochismo, Freud 1924”
di Mario Sancandi
(Padova) Candidato della Società Psicoanalitica Italiana, Sezione Veneto-Emiliana.
*Per citare questo articolo:
Sancandi M. (2025), L’enigma del masochismo: lo ‘stato dell’arte’ nella monografia del 2000 a cura di J. André Rivista KnotGarden 2025/2 Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 173-194.
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L’enigma del masochismo (L’énigme du masochisme), edito nel 2000 dalle Presses Universitaires de France per la collana Petite bibliothèque de psychanalyse – alcuni avranno presente quei libretti blu… – è una monografia curata da Jacques André che raccoglie, rivisitati, gli interventi al suo seminario al Sainte-Anne del 1998-1999, dedicato al tema del masochismo; più un dialogo con Jean Laplanche.
Il fatto che il masochismo, come afferma J. André nell’introduzione, costituisca un enigma “per Freud come per noi, […] nel senso più radicale di un ombelico per la teoria come per la pratica” (1)[1], evidenzia una caratteristica della ricerca psicoanalitica, che si trova sempre, come suggerisce ancora J. André, nella posizione di Edipo davanti alla Sfinge. Questo non significa che il pensiero psicoanalitico sia fermo: sicuramente la comprensione operata da Freud al tempo dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), dove il masochismo era considerato un fenomeno tra gli altri riconducibile al coeccitamento libidico, è diversa da quella che lo stesso Freud elabora in seguito ne Il problema economico del masochismo (1924), dove il masochismo viene individuato come fatto scelto per ripensare il principio di piacere; senz’altro, come afferma Claude Le Guen (1991), almeno per la psicoanalisi francofona la comprensione del masochismo conosce un prima e un dopo le riflessioni di Benno Rosenberg… Eppure, più che nella prospettiva di un sapere cumulativo che ambisce a liquidare una questione, questi ed altri momenti di pensiero vanno intesi nel senso di approfondimenti, come parte di un lavoro di ‘scavo’ (creusement), che quanto più si addentra nell’enigma, tanto più lo rilancia.
La monografia curata da Jacques André si inserisce in questo processo, restituendo ‘lo stato dell’arte’ nelle concezioni di alcuni eminenti psicoanalisti francesi.
Nella sua introduzione J. André getta uno sguardo sull’intreccio di alcuni concetti psicoanalitici fondamentali. A partire dalla constatazione che l’ ‘enigma del masochismo’, prima ancora di essere una sfida alla ragione, è un ostacolo pratico che va sotto il nome di ‘reazione terapeutica negativa’, l’Autore arriva ad evocare il gioco del rocchetto. Nel gioco del nipote di Freud (cfr. Freud, 1920), divenuto un riferimento esemplare, si possono scorgere infatti, tra loro embricate, molteplici valenze: la reiterazione masochista di un dispiacere (il dispiacere della perdita, fort), il guadagno di piacere proveniente dal suo contrario (il ritrovamento, da), ma anche il capovolgimento sadico-attivo dello stesso dispiacere iniziale (non perdo, butto via: fort); intrecciati nell’esigenza di padroneggiare (maîtriser) il trauma, che confina con l’aspirazione all’impossessamento (emprise) dell’oggetto (se solo l’altro fosse riducibile a un rocchetto con cui si può fare ciò che si vuole…). Alla base di tutto ciò c’è l’occorrenza strutturale della perdita: “L’oggetto è perduto non per disgrazia o per caso, ma per essenza. A partire da questo momento, […] facendola molto semplice, si possono distinguere due grandi ‘soluzioni’” (p. 8). La prima è quella della simbolizzazione, che conduce al linguaggio, fino a confondersi con l’opera umana: “Si perde una madre, si trovano dieci rocchetti, così va la vita quando non va troppo male” (ibid.). Ma c’è anche un’altra soluzione, “più subdola e terribile, ma bisogna dire anche più geniale di quella della riparazione simbolica […]. L’amore è appeso a un filo, qualche cosa in seno alla pulsione stessa si oppone alla sua piena soddisfazione, l’esperienza della perdita è costitutiva dell’oggetto… E sia! Curiamo il male con il male, […] coltiviamo la perdita a piacimento se questo è ciò che vuol dire l’amore. Sotto questa forma radicale, che si può dire primaria o immanente, il masochismo sposa la forma generica della melanconia” (ibid.).
Ma se questa è la radice della reazione terapeutica negativa, non c’è d’altra parte del masochismo anche nella situazione analitica in quanto tale? “Parlare più volte a settimana per anni di ciò che è spiacevole, doloroso, inconciliabile; sottomettersi […] a un processo di cui si ignora dove porti, a una parola di cui non si sa ciò che dice… come prestarsi a un tale esercizio […] senza un contributo minimo del masochismo?” (p. 9). “Prima di diventare per l’analisi uno degli avversari più duri, il masochismo è per essa un indispensabile aiutante” (p. 10).
Infine, riflette J. André, non è possibile pensare il masochismo senza metterlo in relazione al narcisismo: “Lavorare contro il proprio interesse, distruggere le prospettive, persino annientare la propria esistenza… le parole di Freud per descrivere il masochismo estremo difficilmente possono essere ascoltate dallo psicoanalista odierno senza che vi si mescoli l’eco del narcisismo. Un narcisismo ferito, patologico” (p. 17). D’altronde, masochismo e narcisismo condividono “il rivolgimento sulla propria persona, il ritorno su di sé, il movimento auto o riflesso” (pp. 17-8). Inoltre, “La chiusura (e, in analisi, l’inaccessibilità) li minaccia entrambi. L’enigma del masochismo sarebbe l’enigma del narcisismo? Questa immobilità psichica che viene chiamata ‘reazione terapeutica negativa’ si confonde con il ritiro di tutti gli investimenti sull’Io?” (18). Il fatto di scrivere un’introduzione, commenta l’Autore, lo esonera dallo spingersi più in là.
Quello tra Jacques André e Jean Laplanche, svoltosi a Lanzarote nell’estate 1999, è un colloquio relativamente breve – undici pagine di un libro di piccolo formato –, ma molto denso dal punto di vista teorico. Benché vi si menzionino fenomeni della vita psichica infantile e adulta, le questioni che lo attraversano vertono infatti su tematiche metapsicologiche fondamentali.
Per andare subito al dunque: è pensabile il masochismo senza la pulsione di morte?
Freud, come noto, nell’ultima parte della sua vita ritenne di no (cfr. Freud, 1924). Cos’ha da dire a riguardo J. Laplanche, dal quale l’esistenza di una pulsione di morte viene fermamente negata?
La cornice la fornisce in apertura J. André, che si ritaglia in questo dialogo il ruolo di sparring partner, che interroga e rintuzza il collocutore per favorirlo nell’espressione del suo pensiero, riassumendo così le posizioni di Laplanche: “Il movimento di generalizzazione che voi proponete per la teoria della seduzione, fondata sul primato dell’altro, sul primato dell’inconscio nell’altro adulto, quale si infiltra nei gesti di cura all’inizio della vita, questo movimento di generalizzazione porta con sé il masochismo, un masochismo, se così si può dire, coestensivo alla sessualità umana: il movimento di rimozione, costitutivo del fantasma inconscio, e l’eccitamento ad esso associato, la pulsione, questo movimento, voi dite, non può essere vissuto che in modo masochistico nella misura in cui l’attacco della pulsione, l’attacco all’Io da parte di questo corpo estraneo interno che è il fantasma inconscio, è vissuto in modo doloroso da parte di un Io passivo, oggetto di effrazione [effracté]” (André op., p. 19).
Ecco, dunque, che secondo Laplanche il masochismo è coestensivo alla psicosessualità. Questo perché, dal suo punto di vista, la sessualità umana dev’essere pensata, alla radice, non come ricerca di piacere da parte di un io corporeo mosso da spinte endogene, ma come messaggio enigmatico inizialmente battuta subito, inoculato dall’altro, che l’individuo tenta, finché c’è vita e mobilità psichica, di tradurre e soggettivare, potendo per altro riuscirvi solo in modo parziale.
Questa posizione teorica va di pari passo con la valorizzazione di una differenza che Freud, secondo Laplanche, si è limitato a tratteggiare: “la differenza tra sessualità pulsionale e sessualità istintuale, o ancora tra la sessualità infantile, una sessualità che si può dire preliminare o pre- e paragenitale, da una parte, e una sessualità istintuale genitale, dall’altra” (J.L., p. 20). La piena assunzione di questa differenza porterebbe a rivedere l’assunto economico che sta alla base del principio di piacere, ossia la convinzione che il piacere debba necessariamente coincidere con una scarica che riduce la quantità di tensione: “bisogna affermare che la sessualità legata al fantasma, la sessualità con la quale principalmente abbiamo a che fare in analisi, non è una sessualità che funziona secondo il principio di piacere che mira all’abbassamento della tensione e alla scarica. Al contrario, è una sessualità che funziona alla ricerca dell’eccitamento” (J.L., p. 21). Molti dei piaceri infantili, infatti, in seguito piaceri preliminari, non prevedono la scarica: così è per il piacere di guardare, di tastare, ecc. Viene con ciò richiamata l’ambiguità della parola tedesca Lust, che può indicare sia il piacere “nel senso più banale del principio di piacere, dunque di piacere della scarica […] [sia] la nozione inversa, quella di ricerca dell’eccitamento” (J.L., p. 21). Paradigmatico, in questo senso, sarebbe il piacere preliminare della sculacciata, piacere masochistico per definizione, che “come una specie di reliquia, di resto archeologico, [testimonierebbe] l’origine esogena della sessualità” (J.L., p. 23).
Da questa prospettiva, l’‘enigma del masochismo’ verrebbe a perdere la sua incomprensibilità: “una volta che si ammette che esiste un piacere della tensione e della carica non c’è niente di sorprendente nel masochismo, se non il fatto che esso va contro la vita. Ma non c’è niente di sorprendente nel fatto che l’essere umano vada contro la vita” (J.L., p. 22).
La costruzione teorica di Laplanche promuove dunque uno sguardo metapsicologico sul masochismo profondamente diverso da quello di coloro che hanno seguito Freud nella concezione di una pulsione di morte, ma ugualmente coerente al proprio interno. Sembra però che il masochismo, per la psicoanalisi, costituisca uno degli ambiti, o forse l’ambito per eccellenza, in cui lo scarto tra la comprensione teorica di un fenomeno e la facilità nel produrvi delle trasformazioni sul piano clinico si esprime maggiormente, come rileva lo stesso Laplanche nella conclusione del colloquio: “Se anche è possibile intravedere i lineamenti della soluzione della difficoltà teorica, questo non ci dà per forza la soluzione alla difficoltà pratica […]. Spiegare un fenomeno non ci dà per forza i mezzi per modificarlo. Ne abbiamo mille esempi, nei campi più disparati” (J.L., pp. 29-30).
Philippe Jeammet, al contrario, dà al suo contributo un taglio clinico, chiarendo da subito di parlare come “psicoanalista psichiatra di adolescenti” (p. 31).
L’oggetto della sua riflessione è il “Paradosso di questi giovani che, almeno in apparenza, hanno ‘tutto per riuscire’ e che […] si lanciano in […] condotte di autosabotaggio delle loro potenzialità, vero filo d’Arianna della psicopatologia di quest’età” (ibid.). Talmente proteiforme e diffuso è questo paradosso, declinato in forme che vanno dal fallimento scolastico fino a condotte che mettono a rischio la salute e la vita, da rivestire nel mondo cosiddetto ‘economicamente avanzato’ il ruolo di uno scandalo: “Allo scandalo dell’inizio di questo secolo [il Novecento] creato dalla scoperta del ruolo della sessualità infantile nel funzionamento e nella strutturazione dell’apparato psichico risponderebbe in questa fine di secolo quest’altro scandalo, tanto più tragico del primo, seppure non privo di legame con esso, rappresentato dalla capacità degli umani di farsi soffrire senza limite e di non potervi rinunciare” (p. 32).
Jeammet illustra questo ‘scandalo’ attraverso tre casi clinici, diversi tra loro per età dei pazienti, severità dei sintomi e cornice di lavoro.
La prima è una donna “per la quale il masochismo nella sua variante morale occupa una posizione centrale” (ibid.). Da qualche anno in analisi, questa donna è in grado di esprimere un buon funzionamento sociale, tendendo tuttavia a boicottare sia la sua vita affettiva sia la sua vita professionale, indugiando in comportamenti come arrivare tardi al lavoro, saltare le riunioni, ecc. “Ad aggravare le difficoltà e a rinforzare le condotte masochiste è l’accesso a un posto di responsabilità dove le è chiesto […] di avere iniziative e, in fondo, […] di dare qualcosa di sé stessa. Questa sollecitazione ha accresciuto la minaccia narcisistica e al tempo stesso l’odio contro l’imago materna, come se le si chiedesse di dare quello che non aveva ricevuto” (p. 34).
La seconda situazione vede come protagonista un sedicenne che non fa nulla per portare a buon fine l’esame di maturità, coinvolto in una vicinanza ‘incestuale’ (cfr. Racamier, 1995) con la madre. Piuttosto che subire una castrazione, questo adolescente preferisce “riprendere l’iniziativa e un certo padroneggiamento della situazione” (p. 38) garantendosi così una ‘soddisfazione d’emprise’ (cfr. Denis, 1997) che può arrivare fino al ‘trionfo masochistico’; in questo modo egli si “assicura un recupero narcisistico di questo fallimento relativo dell’Io agendolo invece di subirlo” (p. 43).
Il terzo caso, il più severo, è quello di una quattordicenne, Marie, che dall’età di undici anni soffre di anoressia, arrivando ad arrestare la sua crescita e a pesare 25 chili. Seguita dall’Autore nel ruolo di responsabile del Servizio presso cui è ospedalizzata, Marie manifesta una reazione terapeutica negativa generalizzata che si esprime sotto forma di svalutazione e boicottaggio sistematico delle offerte terapeutiche che le vengono rivolte. Qualcosa inizia a cambiare quando, dapprima in modo indiretto e tangenziale, Marie si lascia ‘prendere in gioco’[2] attraverso lo psicodramma. Parte da lì un lungo processo che la porterà ad essere dimessa dall’ospedale, ad affidarsi a una psicoterapeuta esterna, pur mantenendo i rapporti con l’équipe del Servizio, e a recuperare infine la prospettiva di un’adolescenza possibile.
Ciò che queste situazioni, pur così diverse tra loro, hanno in comune è una dinamica processuale tale per cui il masochismo, che “all’inizio è un mezzo per padroneggiare una minaccia identitaria e di dissoluzione dell’Io” (p. 66), può invertire la sua traiettoria auto-alimentante passando attraverso un transfert narcisistico. Scrive l’Autore: “Torno ora su ciò che permette di rendere mobile questa segregazione nei comportamenti masochisti. È la possibilità per il terapeuta di arrivare a costituire un legame di appoggio che restaura una capacità di fiducia. Quest’ultima, a sua volta, autorizza un rilancio progressivo del piacere di funzionamento, ossia degli autoerotismi, e del piacere di investire. Esso favorisce la mobilitazione di una capacità libidica fin lì massivamente cooptata nel vincolo masochistico. L’investimento libidico può essere il motore per stabilire questo tipo di legame, ma esso si accompagna necessariamente ad un’implicazione narcisistica maggiore e ad un’idealizzazione” (p. 58).
Nel rapportarsi al tema del masochismo, l’intento di Maurice Dayan è quello di “ritrovare […] il valore enigmatico che la psicoanalisi gli ha riconosciuto fin dai propri inizi” (p. 69). Ciò che per l’Autore significa andare al di là non solo dell’uso comune del termine, ma anche di “presunte evidenze cliniche e sagge distinzioni” (ibid.) che si sono sedimentate nel pensiero psicoanalitico come una sorta di sapere acquisito.
Nelle sue riflessioni, M. Dayan riparte dunque dal principio: dal testo di Sacher-Masoch del 1870, Venere in pelliccia; e dalla presentazione che di esso dà Gilles Deleuze. Due, in particolare, sono i nuclei teorici che diventano obiettivi della critica di Dayan, tra loro interconnessi: la complementarità masochismo-sadismo – “l’entità unitaria ‘sadomasochismo’ […] È un ‘mostro semiologico’” (p. 74) – e la presunta preminenza della figura del padre nello scenario masochista.
“L’espressione ‘sufficienza strutturale’ [nel senso di una relativa autonomia del masochismo dal sadismo] cade sotto la penna di Deleuze (1967, p. 111), che ricusa il trasformismo astratto di Freud (i rivolgimenti e le inversioni che riempiono alcuni ‘spazi vuoti’ tra sadismo e masochismo, abusivamente ridotti a un’identità di funzionamento distruttivo)” (p. 74). C’è differenza tra “l’umorismo e l’immaginazione dell’Io narcisistico invulnerabile, proprio dell’eroe masochista, […] [e] l’ironia sadica che attiene a un pensiero dimostrativo il cui corollario è l’apatia” (ibid.). Severin, protagonista del romanzo di Sacher-Masoch, è una figura con caratteristiche diverse rispetto alle vittime del Marchese de Sade, non fosse altro perché queste ultime non desiderano soffrire; così come Wanda, che di Severin per un tratto di vita diventa complice maltrattante, non può essere considerata un alter ego femminile del Marchese: “Questa donna divenuta carnefice non è sadica, ella appartiene al sistema masochista in quanto agente del far-soffrire che applica la punizione, che sola autorizza il piacere difeso” (p. 73).
Nella scena masochista, tratteggiata da Sacher-Masoch e assunta da Dayan ad idealtipo, l’alleanza tra la donna e la sua vittima gaudente, ‘sovrasensuale’ (übersinnlich), “indebolisce il padre (la cui presenza al di sotto delle leggi è al contrario determinante nel sadismo). La castrazione, lungi dal prevenire l’incesto, ne assicura qui il successo sotto forma di una seconda nascita, partenogenetica, in cui il padre non ha alcun ruolo – è lui stesso ad essere picchiato (e non picchiatore per delega) nella fattispecie dell’uomo avvilito la cui immagine virile viene distrutta” (p. 73).
Riprendendo il pensiero di Theodor Reik (1941), l’Autore evoca la presenza, sullo sfondo dello scenario masochista, della figura orale della madre divoratrice, diversamente declinata per i due sessi: “mentre il ragazzo si aggrappa alla madre come oggetto-prototipo del personaggio idealizzato di cui si vorrà vittima, la ragazza, sotto l’influenza del complesso edipico, cambia il sesso della persona attiva nelle sue fantasie (vedi il ruolo assegnato al padre in Un bambino viene picchiato [Freud, 1919])” (p. 79).
Sgomberato così il campo da assunti teorici ritenuti poco convincenti, M. Dayan è libero di avanzare “qualche proposta” (p. 80):
1 – L’ancoraggio del masochismo nella bisessualità. “In analisi percepiamo spesso dei legami profondi tra il masochismo e una bisessualità conflittuale” (p. 81). L’Autore ne riporta degli esempi.
2 – Il masochismo come ripetizione del trauma. “[…] la disposizione masochista non sembra innata ma edificata come una maniera iterativa di ‘riflettere’ su una serie di esperienze traumatiche a partire dalla prima infanzia. L’individuo sopravvive sessualmente a queste esperienze mostrandosi indefinitamente adatto a tollerare la condizione di vittima o di schiavo martoriato, godendo della propria resistenza […]. Mai quanto in questo tipo di ‘perverso’ il piacere è un premio che viene meritato e ottenuto attraverso l’attitudine a soffrire. Qui non si tratta di una semplice aritmetica strutturale degli affetti, ma di un’elaborazione narcisistica a distanza del trauma” (p. 82, corsivo dell’Autore).
3 – Il valore esemplare del masochismo sessuale per comprendere il rapporto Eros-Thanatos nella sfera ‘morale’. Nel masochismo morale, dove l’accesso al piacere sembra interdetto, il ruolo di mistress è assegnato al Destino; ma vi è anche “un rapporto narcisistico e ambivalente con l’altro preso a testimone – e trattato inconsciamente come una metonimia dell’affascinante avversità” (83, corsivo dell’Autore). “Questa dimensione della vita pulsionale si lascia chiarire poco sia dall’idea di un odio di sé radicale e primario sia attraverso la riduzione al ‘bisogno di punizione’. Per quanto diversi siano questi due richiami concettuali, essi hanno in comune il fatto di trascurare l’ambivalenza narcisistica di cui la ricerca masochista si nutre fino all’esasperazione. Il gusto del rischio estremo […] è un’ottima illustrazione di questa ambivalenza: esso mostra un Io che non si ama mai quanto in presenza di un pericolo mortale” (p. 85.). Il masochismo sessuale fornirebbe dunque un esempio di ambivalenza Eros-Thanatos che non collassa in uno scontro frontale come accade nella melanconia.
Marie-Claude Lambotte, psicoanalista e professoressa di psicopatologia all’Università Parigi XIII, è nota soprattutto per le sue elaborazioni sul tema della melanconia[3]. Non stupisce, dunque, che ella si impegni ad indagare le relazioni che intercorrono tra melanconia e masochismo. Nel farlo, l’Autrice si muove dichiaratamente tra due livelli: fenomenologico e metapsicologico.
Sul piano fenomenologico, anche se melanconia e masochismo vengono a volte confusi per la comune tendenza a permanere nella sofferenza, viene sottolineata una differenza significativa: “L’assimilazione spesso abusiva dello stato di abbattimento del soggetto melanconico, altrimenti detto di inibizione generalizzata […], con l’andatura globale del masochismo occulta il godimento legato alla posizione di eccezione” (p. 89-90) che il melanconico sente di occupare in ragione della sua attitudine ‘pseudo-filosofica’ a sostenere ‘le verità scomode’ dell’esistenza: «Non c’è senso nella vita», e simili. È ciò che l’Autrice denomina ‘discorso melanconico’: “un ‘diniego d’intenzione’ nel senso che verrebbe attaccata l’intenzionalità stessa, messa direttamente nel mirino da questa verità che afferma pienamente la castrazione, annullando ogni valore accordato alle cose della realtà” (p. 94).
Sullo sfondo di questo negativismo generalizzato si comprende come il masochismo del melanconico diventi indistinguibile da una posizione sadica: “è noto […] con quale accanimento il soggetto melanconico si adoperi a rendere inoperanti i propositi di assistenza del suo ambiente” (p. 90). Lo stesso si verifica nella relazione analitica, dove la reazione terapeutica negativa è presente fin da principio, e può essere esplicitata già nei primi colloqui con affermazioni del tipo: «Non sono qui per mia scelta, mi hanno spinto», «Il suo metodo andrà bene per gli altri, non per me», «Sicuramente tutto ciò che lei dice è giusto, ma so già che non servirà a nulla», ecc.
Sembra che il melanconico abbia bisogno di far sperimentare all’altro l’impotenza che, secondo M.-C. Lambotte, sta alla base della sua condizione: “attualizzare nell’altro questa stessa falla originaria costitutiva della [sua] organizzazione psichica […] diventa per il soggetto melanconico il solo modo di contatto possibile con l’altro” (p. 96).
Questa considerazione sposta la riflessione su un piano metapsicologico. Scrive l’Autrice: “Nella nostra elaborazione della metapsicologia della melanconia, il soggetto si sarebbe identificato alla traccia stessa della scomparsa dell’altro [avvenuta quando quest’ultimo stava iniziando il soggetto al campo del desiderio], come alla sola reliquia il cui significante ‘nulla’ contribuisce a mantenere la funzionalità in seno al negativismo generalizzato. […] Si spiegherebbe così, senza dubbio, il masochismo primario che, ingigantito dal traumatismo della scomparsa dell’altro e del pericolo mortale occorso, si sarebbe in parte volto in sadismo sotto forma di rifiuto di ogni investimento, ormai portatore del possibile ritorno della catastrofe originaria” (p. 103).
In questa visione, “Il soggetto melanconico vive nella nostalgia di un godimento intravisto e che, da allora, si è attaccato alla traccia dell’oggetto scomparso” (p. 105). “Si comprende così che l’accanimento con cui il soggetto melanconico denega alla realtà ogni interesse e rifiuta le possibilità di investimento a vantaggio di un ‘superbo isolamento’, posizione masochista per eccellenza, risponde alla volontà di conservare, costi quel che costi, questa fiducia in un godimento sempre nelle vicinanze ma di cui il melanconico non indovina il luogo: dietro lo specchio, dietro la cornice del fantasma” (p. 106).
“Cogliendo la funzione paradossale del masochismo nella melanconia, si torna […] al luogo del godimento mitico e mortifero al quale il soggetto resta ancora associato, o dal quale resta insufficientemente separato. Ma privare il soggetto melanconico di un’immagine così manifestamente inibitoria, senza più alcun luogo di investimento possibile, vorrebbe dire privarlo del suo apparato difensivo più efficace […] [nei confronti della] sua ossessione del ritorno della catastrofe originaria” (p. 107). Una possibile via d’uscita da questa impasse, secondo l’Autrice, passa per l’instaurazione di “un luogo in cui trasformare questo godimento tutto immaginario a vantaggio della sua dispersione in elementi simbolici il più delle volte specifici della contemplazione estetica” (ibid.).
Si ritroverebbe così, a partire della clinica, il nesso tra melanconia ed estetica spesso evocato in ambito letterario e filosofico.
Il contributo di Marilia Aisenstein è ricco di rimandi teorici, clinici e al mondo artistico letterario e cinematografico. Non potendo riassumere questa ricchezza, ci si limiterà in questa sede a degli accenni ai punti teorico-clinici più salienti – o arbitrariamente ritenuti tali.
Dal punto di vista teorico, l’Autrice prende posizione in favore di una relativa autonomia del masochismo dal sadismo – seguendo in ciò, come già aveva fatto M. Dayan (vedi sopra), la critica di Gilles Deleuze (1967); nonché della necessità della svolta freudiana degli anni ‘20, quindi della pulsione di morte, per l’intellegibilità del masochismo (cfr. Freud, 1924). In particolare, ella dichiara un’identità di vedute con l’elaborazione di Benno Rosenberg (1991), che teorizza l’esistenza di un masochismo ‘custode della vita’, inteso come prima forma di impasto pulsionale – e dunque di legamento della distruttività – e nucleo sempre attivo nello psichismo, “un nucleo masochistico originario organizzatore della soddisfazione-allucinazione del desiderio e della temporalità” (p. 114). Del resto, riflette l’Autrice, se non fosse per questa dimensione masochistica dell’esistenza, “Perché non uccidersi alla prima delusione? Perché amare soffrire d’amore? Perché? … Perché l’impasto delle due pulsioni antagoniste si fa sulla base e in funzione di un masochismo erogeno primario sul quale si appoggeranno le altre forme di masochismo: femmineo, morale, secondario” (p. 112). E ancora: “Come accettare la vita senza sofferenze? Come tollerare la sofferenza se essa non fosse intrinsecamente legata alla libido, dunque erotizzata?” (p. 115).
A partire da queste posizioni teoriche, e dalla sua esperienza nell’ambito della Scuola psicosomatica di Parigi “con questi casi estremi che sono i pazienti che soffrono di affezioni somatiche dolorose, invalidanti e persino letali” (ibid.), l’Autrice è portata a interrogarsi sul ruolo del dolore, o al contrario, della sua anestetizzazione nel divenire psichico.
Ad illustrazione delle sue riflessioni, oltre a contenuti attinti dal mondo dell’arte, M. Aisenstein riporta il resoconto di un’analisi con una donna che sceglie di denominare Taëko, come l’eroina del romanzo La scuola della carne di Mishima[4].
Questa donna aveva svolto una psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico tra i 18 e i 20 anni. In seguito a quell’esperienza che, riferisce, l’aveva molto aiutata, si era sposata con un uomo più maturo di lei e la sua vita aveva trovato un equilibrio che le sembrava votato all’eternità. Questo equilibrio entra in crisi quando, a 35 anni, le viene diagnosticato un cancro al collo dell’utero. Rifiutando gli interventi più invasivi che pure le erano stati proposti, Taëko riesce a salvare l’utero, ma deve sottoporsi a cicli di chemioterapia che le fanno provare fortemente la sofferenza del corpo. Di lì a poco il suo matrimonio entra in crisi e decide per il divorzio.
In seguito a tutto ciò, Taëko si rivolge a un’analista perché “è angosciata; un’angoscia diffusa e costante la pone in un discreto stato di estraneità. Questo stato sopraggiunge ora che è guarita e libera, dato che è divorziata, ancora giovane e senza figli. «Tutto può succedere», le dico, «è il contrario dell’eternità». Molto presto Taëko prende coscienza di essere attanagliata da desideri sessuali violenti […]” (p. 121).
Durante l’analisi Taëko si lega a René, un uomo sposato a una donna severamente malata. Con René Taëko sperimenta una vita erotica che coinvolge anche altre donne, realizzando delle spinte omosessuali che già informavano il precedente rapporto con la cognata. Ella conosce però anche una profonda gelosia, sentendosi attanagliata dal timore che il suo amante possa frequentare le altre donne in sua assenza. Il rapporto si interrompe quando René decide di dedicarsi unicamente alla cura della moglie, ormai in fin di vita. “Taëko ne è «malata» – questo è il termine che usa – malata di disperazione, di gelosia, di invidia verso questa donna che muore ma che è madre, e che dipende da un uomo. […] Piange molto. «Ne sono malata», «ma d’amore questa volta», le faccio osservare. «È la stessa cosa, senza il cancro non avrei avuto un grembo, non avrei avuto René” (p. 125-26, corsivo dell’Autrice). Nel suo sogno di fine analisi Taëko si vede incinta: “«Incinta del bambino che non avrò; ma comunque sono piena di cose nel grembo e poi, ora, so perdere e conservare allo stesso tempo. C’è voluto tutto questo tempo…» (p. 126). Sembra che attraverso l’attacco della malattia e della mancanza si sia resa possibile l’integrazione di un narcisismo, inizialmente difensivo, in un masochismo custode della vita.
In conclusione, dolore e masochismo restano dei paradossi. “Con nostro grande piacere” – constata l’Autrice – “la ricerca in psicoanalisi ci confronta spesso all’enigma e al paradosso, forse bisogna accettarli come tali” (p. 129).
A chiudere la monografia è il contributo di Michel de M’Uzan, che a decenni di distanza rievoca l’“osservazione eccezionale” (p. 131) che gli ha permesso di scrivere, nel 1972, il suo lavoro: Un caso di masochismo perverso[5] – considerato “una tappa storica” (p. 3), sia per il materiale clinico riportato che per le elaborazioni teoriche sviluppate a partire da esso.
Questo il preambolo dell’incontro: un medico deve procedere a una visita fisica completa di un paziente. Nel farlo, si imbatte in un corpo che reca segni eclatanti di pratiche sessuali perverse di tipo masochista. Verrà qui risparmiato al lettore, anche per ragioni di spazio, l’elenco completo di questi segni, dal gusto un po’ teratologico. Basterà menzionare, per rendere il tenore, la deformazione volontaria e permanente del pene e dell’ano, l’amputazione autoinflitta di un dito del piede, la profonda bruciatura di un pettorale, i numerosi tatuaggi che ricoprono la pelle con dichiarazioni del tipo: “Non sono né uomo né donna, ma una troia, una puttana, carne da piacere”, e simili.
L’uomo, all’epoca sessantaduenne, accetta su indicazione del medico di recarsi da uno psicoanalista, ma non – e questa è forse la particolarità maggiore dell’incontro – con una domanda di cura: il contratto è di natura dichiaratamente epistemofilica. Per il consultante si tratta di capire se può ricavare qualche spunto rispetto a un interrogativo la cui risposta gli rimane oscura: perché, per parte della sua vita, è stato coinvolto in maniera così massiva da queste pratiche? Per l’analista, dall’altra parte, si tratta di un ghiotto boccone scientifico, di fronte al quale prova tuttavia sentimenti contrastanti: “Un tale ‘materiale’ non potrebbe lasciarvi indifferenti, anche quando il suo carattere talmente spettacolare tende a darvi il desiderio di sbarazzarvene” (p. 135).
Una prima cosa che colpisce è che il masochismo, per quest’uomo, resta circoscritto al settore delle pratiche sessuali perverse e che, per quanto queste ultime abbiano assunto in certi momenti delle proporzioni estreme, la perversione agita lo ha sempre lasciato libero per il resto di esprimere un funzionamento sociale, intellettivo, ecc. più che adeguato. Altro dato significativo è che le pratiche masochiste erano condivise con la moglie, scopertasi anch’ella masochista e complice di scenari che vedevano la partecipazione di terzi nel ruolo di agenti sadici. Da notare, per altro, che l’agente sadico sembra essere sottilmente denigrato dal masochista, che reclama per sé il vero piacere[6]. Ad ogni modo, dopo la morte della moglie, avvenuta in giovane età, l’uomo “ha cercato per qualche tempo di proseguire […] le sue pratiche masochiste, che però, a poco a poco, si sono come svuotate di senso. Man mano che egli avanzava nella sua vita era sempre meno sollecitato da questa esigenza di scarica fatale e si scopriva in grado di avere pratiche sessuali ‘normali’, come quelle che aveva avuto con la moglie nei primi tempi del loro matrimonio” (pp. 141-2). Anche i sogni, che al tempo del masochismo attivo erano di ordine perverso, si erano progressivamente trasformati esperienze oniriche vissute come ‘normali’. Avendo da tempo interrotto i rapporti con la figlia, l’uomo, rimasto vedovo, decide di adottare una ragazza. Quando questa si sposa assume un ruolo patriarcale: “Ci teneva soprattutto che nulla della sua sessualità perversa del passato venisse conosciuto dalla sua nuova famiglia. Aveva dunque istituito una barriera a tenuta stagna, una scissione, tra la sfera perversa e il resto della sua esistenza, normale e adattata, in cui faceva mostra di un’etica intransigente” (p. 142).
Lo psicoanalista e monsieur M. – ‘M. il maso’, come si definisce – si vedono per soli due colloqui, seppure lunghi: “Ci separammo sull’evocazione di questa evoluzione. Da lui non ricevetti più la minima notizia” (ibid.).
Questa, in grande sintesi, la parte clinica. Rispetto all’elaborazione teorica, l’Autore articola la sua tesi attorno a quattro punti principali, tra loro interrelati:
1 – Il rifiuto di seguire Freud sul terreno della pulsione di morte: “preferisco infatti riferirmi a dei principi di funzionamento: principio di inerzia [quindi scarica totale, svuotamento] e principio di costanza [mantenimento dell’eccitamento a livello più basso, ma costante]” (p. 138).
2 – La centralità del fattore quantitativo: “superato un certo livello [l’eccesso pulsionale] non è più gestibile attraverso la mentalizzazione […] e […], sottomesso al principio di inerzia, esige una scarica che può assumere diverse forme, in particolare perverse, o anche attraverso un sintomo somatico” (ibid.). Viene menzionato in questo modo uno degli assunti della Scuola psicosomatica di Parigi, di cui de M’Uzan costituisce uno dei principali riferimenti, ossia la convinzione che la via psicosomatica rappresenti un ritorno nel corpo di esigenze di lavoro a cui la mente non ha saputo rispondere[7].
3 – Il bisogno di godimento infinito e la sottomissione a un’esigenza totale di scarica, che mette fuori gioco il Super-io.
4 – La mancanza di angoscia di castrazione: “il masochista perverso non teme niente, neanche la castrazione, egli desidera tutto, compresa la castrazione” (p. 139).
Ma che ne è della domanda che aveva dato origine all’incontro? Perché M. si è addentrato così a fondo nella perversione masochista agita? Non è stato possibile formulare delle ipotesi psicogenetiche soddisfacenti. M. de M’Uzan, consapevole di scontentare in tal modo gli psicoanalisti, che non amano avere a che fare con registri diversi da quello del senso, sottolinea l’importanza dei fattori costituzionali, che lo stesso Freud, ricorda, non ha mai mancato di considerare. A favore di questa tesi deporrebbe il fatto che la moglie di M. era anche una sua cugina, ma cresciuta in altro ambiente e conosciuta tardivamente.
Alla luce di questa carrellata di contributi, riprendendo il filo di quanto detto in apertura, si può osservare che dopo un secolo di psicoanalisi la comprensione del masochismo – o meglio, di una galassia di questioni attraversata dal tema del masochismo – è senz’altro più articolata di quanto non fosse in principio. Nondimeno, «il maledetto problema del masochismo» (riprendendo la citazione di Ferenczi in esergo) sta sempre lì come una sineddoche per indicare «il maledetto problema della psicosessualità», «il maledetto problema dell’animo umano attraversato da mozioni paradossali», o «il maledetto problema dell’inconscio». Si tratta, parafrasando il titolo dell’introduzione di Jacques André (Il masochismo immanente), di una «enigmaticità immanente», che può essere ‘lavorata’, sul piano sia clinico che teorico, ma mai abolita.
Bibliografia
Badoni M. (2003). Prendersi in gioco, Milano, Raffaello Cortina.
De M’Uzan M. (1972). Un cas de masochisme pervers. In La sexualité perverse, Paris, Payot.
De M’Uzan M. (1977). Da l’art à la mort. Paris, Gallimard.
Deleuze G. (1967). Presentazione di Sacher-Masoch, Milano, Bompiani, 1978.
Denis P. (1997). Emprise et satisfaction. Les deux formants de la pulsion, Paris, P.U.F.
Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. O.S.F., 4.
Freud S. (1919). “Un bambino viene picchiato” (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali), O.S.F., 9.
Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere, O.S.F., 9.
Freud S. (1924). Il problema economico del masochismo, O.S.F., 10.
Lambotte M.-C. (1993), Il discorso melanconico, Roma, Borla, 1999.
Le Guen C. (1991). Prefazione. In Rosenberg B. (1991), Masochismo mortifero e masochismo custode della vita, Roma, Alpes Italia, 2022.
Mishima Y. (1963). La scuola della carne, Milano, Feltrinelli, 2013.
Racamier P.-C. (1995). Incesto e incestuale, Milano, Franco Angeli, 2003.
Reik Th. (1941). Il masochismo nell’uomo moderno, Milano, Sugar, 1963.
Rosenberg B. (1991). Masochismo mortifero e masochismo custode della vita, Roma, Alpes Italia, 2022.
NOTE
[1] In mancanza di diverse indicazioni bibliografiche i numeri di pagina si riferiscono sempre al contributo degli Autori all’interno della monografia.
[2] L’espressione non viene utilizzata da Ph. Jeammet, ma è di Marta Badoni (2023); essa, tuttavia, sembra particolarmente idonea a rendere lo snodo processuale descritto da Jeammet.
[3] In Italia, il suo principale testo sull’argomento, Il discorso melanconico (1993), è stato edito da Borla, con traduzione e saggio introduttivo a cura di Alberto Luchetti.
[4] Questo di Mishima può essere considerato un romanzo di formazione erotica e sentimentale. Numerosi, d’altronde, sono i riferimenti alla letteratura giapponese che compaiono in questo contributo di M. Aisenstein.
[5] In seguito, raccolto anche in De l’art à la mort, forse il libro più noto dell’Autore.
[6] Due associazioni che esulano dal racconto di M. de M’Uzan: l’una riguarda Tiresia che, avendo sperimentato l’esistenza umana sia nel corpo maschile che nel corpo femminile, viene interrogato da Zeus ed Era per sapere in quale delle due forme si provi più piacere nell’atto sessuale: Tiresia risponde che il maggior piacere spetta alla donna, in proporzione di nove parti a una. L’altra riguarda la riflessione di Paul Denis, il quale argomenta che il soddisfacimento in sé è sempre passivo, avendo a che fare con un’azione esercitata sulle zone erogene (1997, cap. 3). È questa radice passiva del piacere, che il masochista perverso estremizza ed esalta, a farlo sentire superiore al suo partner sadico nel godimento?
[7] Per una sintetica presentazione delle posizioni della Scuola psicosomatica di Parigi è possibile consultare, sul sito del Centro Veneto di Psicoanalisi, il contributo di Renato Ferraro Appunti e spunti sulla questione psicosomatica.
*Per citare questo articolo:
Sancandi M. (2025), L’enigma del masochismo: lo ‘stato dell’arte’ nella monografia del 2000 a cura di J. André Rivista KnotGarden 2025/2 Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 173-194.
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