Riflessioni sul masochismo morale, tra oggetto interno e oggetto esterno

di Gaetano Filocamo

(Padova) Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana, Centro Veneto di Psicoanalisi.

*Per citare questo articolo

Filocamo G. (2025) Riflessioni sul masochismo morale, tra oggetto interno e oggetto esterno Rivista KnotGarden, 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 146-160.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

A proposito di Dostoevskij e il parricidio

Nel 1927, a tre anni di distanza dalla pubblicazione del saggio Il problema economico del masochismo, Freud pubblicò un nuovo scritto sul tema, dal titolo Dostoevskij e il parricidio. L’occasione gli fu offerta da due autori tedeschi, R. Fulop-Miller e F. Eckstein, i quali stavano lavorando alla pubblicazione di una serie di volumi supplementari dell’autore russo.

Nella prima parte di questo scritto, Freud analizza le violente crisi epilettiche che colpivano Dostoesvskij, identificandole come una sintomatologia nevrotica, ‘isteroepilessia’ (Freud, 1927), da ricondurre al complesso edipico. In questa visione la crisi era per Freud l’espressione di un rivolgimento contro di sé di una pulsione distruttiva, originariamente diretta verso l’oggetto, ma che rivolta ora contro sé stesso, per via di un senso di colpa inconscio, assumeva la forma del masochismo.

Scrive Freud (1927): “la fortissima pulsione distruttiva di Dostoevskij, che avrebbe potuto farne facilmente un criminale, si dirige nella vita principalmente contro la sua stessa persona (si rivolge cioè all’interno anziché all’esterno) esprimendosi perciò sotto forma di masochismo e senso di colpa” (p. 523).

Il ruolo del senso di colpa nel processo di costituzione del masochismo era stato già descritto da Freud nel lavoro del 1924, dove a partire dal fenomeno della reazione terapeutica negativa, aveva evidenziato il bisogno che ha il paziente di restare malato. “La soddisfazione di questo inconscio senso di colpa è forse il più potente tra i fattori che costituiscono il tornaconto (solitamente composito) che il soggetto trae dalla propria malattia” (Freud, 1924, p. 12).

La malattia come strumento per espiare la colpa, così per Dostoevskij le crisi epilettiche erano un modo per punirsi rispetto ad un desiderio che evidentemente muoveva in lui ingenti sensi di colpa. “L’accesso ha in tal caso il valore di una punizione. Si è desiderata la morte di qualcun altro, e adesso si è quest’altro e si è morti a propria volta.” (Freud, 1927, p. 527).

Quest’altro, aggiungerà in seguito Freud, è il padre, rivale edipico, da qui il titolo dello scritto Dostoevskij e il parricidio.

Ripercorrendo la vita di Dostoevskij, Freud riconduce l’insorgenza del sintomo proprio all’esperienza della morte del padre, avvenuta per assassinio, quando egli aveva 17 anni, per mano dei propri contadini.

È il tema della morte a cui l’autore russo fa più volte riferimento a proposito del proprio male, che spinge Freud a percorrere l’idea sul ruolo del desiderio parricida e quindi del conseguente senso di colpa.

Da questo punto di vista vorrei citare un breve scritto del romanziere Solovev, autore contemporaneo e amico di Dostoevskij, il quale, riportando un dialogo con quest’ultimo, scrive:

“Ho i nervi scombussolati da quando ero giovane, già prima della Siberia, durante le mie varie seccature e litigi letterari, avevo scoperto di avere una strana e insopportabilmente tormentosa malattia di nervi. Non posso raccontare quelle sensazioni bruttissime, ma le ricordo in modo molto chiaro; spesso mi sentivo morire, ecco, in realtà la vera morte è arrivata, e poi se n’è andata. Temevo anche il sonno letargico. Stranamente, non appena fui arrestato

to[1], all’improvviso questa mia bruttissima malattia passò, non l’ho più avuta né lungo il cammino, né ai lavori forzati in Siberia, né in seguito; all’improvviso sono diventato energico, forte, riposato, tranquillo…Ma mentre ero ai lavori forzati ho avuto la mia prima crisi epilettica, e da allora non mi ha più lasciato.” [2]

È Dostoevskij stesso, dunque, ad osservare che durante il periodo di detenzione in Siberia, a dispetto delle tremende condizioni ambientali nelle quali viveva, aveva registrato un periodo di relativo benessere.

Benessere che Freud (1927) ritrovava coerente con la sua spiegazione eziopatogenetica della malattia di Dostoevskij (espiazione del senso di colpa) e che lo porterà ad affermare che la tremenda detenzione offriva a Fedor Michajlovic la punizione di cui aveva bisogno, rendendo, di fatto, non più necessario l’accesso della malattia di nervi per la sua economia psichica: “quando era punito in altri modi non ne aveva più bisogno[3]” (p. 530).

 

Finestra clinica

L’alcolismo aveva tenuto[4] compagnia a Daniela, per molti anni della sua vita. Come un fedele compagno di viaggio, aveva attraversato insieme a lei le diverse fasi dell’esistenza. Era stato, però, con la morte della madre che era diventato una vera e propria malattia.

Quando la incontro la prima volta aveva da poco concluso un lungo ricovero in una clinica e manteneva uno stato di precaria ma preziosa astinenza. Ormai quarantenne si descriveva come incapace e poco intelligente, sentiva di non aver fatto niente di buono[5] e portava avanti da qualche anno una relazione con un uomo, gretto e violento, emotivamente molto distante da lei, dalla sua sensibilità letteraria, e dal suo atteggiarsi delicato e silenzioso.

Daniela aveva un fratello, che la implorava di interrompere questa sua relazione tossica, offrendole casa e sostegno economico, seppur di quest’ultimo lei stessa non ne avesse bisogno. Ma Daniela troppo preoccupata per la sofferenza che avrebbe procurato ad Ivan se lo avesse lasciato, faticava ad accettare l’invito del fratello, seppur ne comprendesse l’intenzionalità protettiva.

Niente sembrava svegliare Daniela da un torpore emotivo, che la isolava dagli altri e le faceva vivere un’esistenza tutta ripiegata su una quotidianità triste e senza stimoli. Periodicamente quando Ivan perdeva il controllo e la aggrediva, scappava e si rifugiava dal fratello, dove risiedeva per qualche giorno, per poi fare ritorno dal compagno. Un andamento quasi ciclico regolava questo funzionamento.

 

 

Erotizzazione della colpa: Dostoevskij e Madame Bovary

Quando era punito in altri modi non aveva più bisogno, della sua tormentosa malattia, scriveva Freud a proposito di Dostoevskij.

Ed è proprio su quest’ultimo passaggio che vorrei fare un approfondimento, passaggio ripreso da Benno Rosenberg (2022) nel libro Masochismo mortifero e masochismo custode della vita, il quale arriverà ad affermare che il masochismo morale può essere inteso come una “soluzione” per il sistema psichico, di fronte ad una colpa insopportabile per il soggetto. “Un’organizzazione nevrotica carente […] non mette il soggetto nella condizione di sopportare la sua colpa […]. Una delle soluzioni che in questo caso restano al soggetto, se non l’unica, consiste nel cercare di mantenere la colpa investendola masochisticamente, ossia rendendola sopportabile attraverso l’erotizzazione, trasformandola in una fonte di soddisfacimento masochistico(ibidem, p.29).

La vita di Dostoevskij è certamente stata caratterizzata da una condizione continuamente precaria sul piano economico. La passione per il gioco, le jeu pour le jeu (così lui stesso diceva), e i debiti contratti avevano immiserito la sua esistenza. Come molti autori noteranno, vi era una strana coincidenza tra l’indebitamento verso il quale si spingeva giocando a carte e la sua magnifica produzione letteraria. L’aver perso tutto sembrava il carburante del suo lavoro, tanto da spingere Freud (1927) ad affermare che “la sua produzione letteraria, non procedeva mai così bene come quando essi avevano perduto tutto e ipotecato anche gli ultimi averi. […] Quando il senso di colpa di Dostoevskij era placato dalle punizioni ch’egli stesso s’era inflitto, l’inibizione che gli impediva di lavorare veniva meno, ed egli poteva concedersi qualche passo sulla via che l’avrebbe portato al successo.” (p. 535).

Rosenberg affianca a quest’ultima lettura freudiana una riflessione di natura più economica. A suo avviso contrarre debiti era per Dostoevskij un mezzo che gli permetteva, mortificandosi, di espiare l’intesa colpa di cui evidentemente soffriva. Solo così e solo allora era possibile per l’Io accedere a modalità di funzionamento psichico più evolute, qual è la sublimazione. Sublimare nella creazione artistica e quindi trasformare la pulsione nel suo destino ‘più compiuto’ (Freud, 1915) era possibile solo a valle di un’azione masochistica che avrebbe indebolito e quindi reso a questo punto trasformabile, un senso di colpa altrimenti inelaborabile.

In effetti sembra che i debiti di Dostoevskij non dipendessero solo dal gioco, ma da un certo momento in avanti si siano aggiunte una serie di eventi, che ne ipotecarono le sue economie, di fatto costringendolo ad una condizione di continua e totale povertà. A raccontarlo è Anna Grigor’evna Dostoevskaja, sua seconda moglie: “Voglio spiegare come sono saltati fuori, di preciso, quei debiti che hanno tormentato entrambi. Solo la più piccola parte di questi, […], fu contratta personalmente da Fedor Michajlovic. La maggior parte erano debiti di Michail Michajlovic (fratello di Fedor) per la fabbrica di tabacco e per la rivista ‘Il Tempo’. Dopo la morte inaspettata di Michail Michajlovic (era stato malato solo tre giorni), la sua famiglia, sua moglie e i suoi quattro figli, […], si ritrovarono privi di qualsiasi altro mezzo. Fedor Michajlovic, allora vedovo e senza figli, ritenne suo dovere saldare i debiti del fratello e mantenere la sua famiglia”[6].

Non avendo soldi a sufficienza, continuerà Anna Grigor’evna, Fedor inizierà a firmare una lunga serie di cambiali ai creditori, anche a coloro che pur non avendo alcun diritto di avanzare pretese economiche rivendicavano antichi debiti, a loro dire mai saldati. Fedor, insomma, fu più volte raggirato e derubato da finti creditori: “Lo ingannarono e si fecero firmare delle cambiali ogni genere di spudorati e parassiti”[7].

Nelle parole finali della donna si ritrova quello che si potrebbe considerare l’obiettivo inconscio di una tale sconsiderata condotta, che è, a mio avviso, un bisogno inconscio di punizione, espressione del masochismo morale: “Per ripagare tutti questi debiti fittizi, Fedor Michailovic dovette lavorare oltre misura e, nonostante tutto, rinunciare[8] per sé, e per tutta la nostra famiglia, non solo all’agiatezza, alla comodità, ma anche a soddisfare i nostri bisogni più urgenti”.[9]

E una simile sconsiderata condotta sembra emergere, a ben guardare, anche dal celebre romanzo francese di Gustave Flaubert: Madame Bovary. Opera molto conosciuta e resa famosa, in particolare, per la figura di Emma Bovary, donna apparentemente voluttuosa e di umili origini, che tenta la scalata sociale di stampo borghese[10].

La lettura che voglio proporre di questo romanzo si allontana da questa e quasi incontra la storia di Dostoevskij, attraverso la figura di Charles, medico di incerto successo, innamorato di Emma, che non vede i di lei tradimenti e che verrà portato al fallimento proprio dalle condotte della moglie; condotte che di fatto avvengono sotto i suoi occhi senza che lui se ne renda conto. Momento apicale è la procura generale che Charles firma ad Emma, aprendo la strada al fallimento.

Roberto Speziale-Bagliacca in Adultera e Re, rilegge l’opera di Flaubert, proprio sotto questa nuova lente, immaginando che la relazione tra Emma e Charles sia all’insegna del sado-masochismo. In particolare, mette in risalto il sadismo di Charles come elemento che porterà Emma a cementificare dentro di sé quel senso di colpa così profondo da indurla per ultimo al suicidio. Scrive Speziale-Bagliacca (2000): “Emma non è in grado di cogliere la complessa ambivalenza del marito; non comprende certo fino a che punto l’antico rancore di Charles, per la madre possessiva stia avvelenando il suo amore per lei e, soprattutto quanto abbia lei stessa bisogno di qualcuno da odiare, di qualcuno che la faccia soffrire. […] La diabolicità del disegno di Bovary consiste nel fare della moglie il giudice, il torturatore e il carnefice di sé stessa, giocando lui il ruolo di vittima” (p. 41).

Ripetutamente nel corso del romanzo Charles sembra non cogliere l’effettiva realtà delle cose; spesso induce Emma verso gli amanti e mantiene nei suoi confronti un atteggiamento servile e sacrificale. Un’aggressione masochistica inconscia che risveglia di Emma antichi vissuti di colpa.

Come può, dunque, Charles non vedere la realtà dei tradimenti e le condotte sconsiderate sul piano economico della moglie? E come può Dostoevskij non vedere la realtà dei raggiri che stava subendo?

La cecità di Dostoevskij, così come la cecità di Charles Bovary, sono a mio avviso l’espressione di quel ‘movimento regressivo di ri-sessualizzazione delle relazioni oggettuali edipiche’ di cui parla Rosenberg (2022).

Per fronteggiare un senso di colpa così arcaico come è per il paziente melanconico, reso insopportabile dal sadismo dei fantasmi orali cannibalici, all’Io non resterebbe che la via dell’erotizzazione. Investire eroticamente la colpa permette all’Io di poterla ‘sopportare e placare’ (ibidem), in ultima istanza potremmo dire, permette di sopravvivere.

Si tratta di una regressione che segna un ritorno all’Edipo, dalla “moralità al complesso di edipo” (ibidem). Il desiderio di sottomettersi al Super-Io si realizza attraverso il recupero di una posizione passivo-recettiva nei confronti del genitore edipico, o di chi nel qui ed ora[11] ne ricopre questo ruolo. È questa regressione, che è regressione dell’Io, che spiega la carenza di critica rispetto alla realtà esterna che accade, e che riporta il soggetto adulto ad essere quel bambino di un tempo, che in talune circostanze smette di pensare e si sottomette[12] eroticamente ai genitori.

 

Finestra clinica 2

L’adolescenza e la prima età adulta di Daniela erano stati periodi abbastanza turbolenti. Impegnata tra continui cambi di lavoro e serate con amici in discoteca, per molti anni si era dimostrata imprendibile. Nessun uomo sembrava soddisfacente, seppur in molti le facessero la corte e ne ricercassero le attenzioni. Credo che Daniela scappasse sia da un dolore che troppo intensamente la legava ad una mamma tanto-troppo buona[13] e da sempre depressa, che dagli uomini forse a causa di qualcosa che era accaduto con il padre, di cui serbava solo qualche ricordo per lo più sensoriale, che la lasciava con il timore-dubbio di essere stata oggetto di sue attenzioni sessuali.

Daniela scappava anche nel transfert, rifugiandosi dentro una grotta fatta di immobilismo, e impotenza. Le cose andavano così e niente ci si poteva fare. Per anni mi nascose le sottili provocazioni che lei stessa attivamente metteva in gioco nella relazione di coppia e che seppur non fossero la causa dei momenti di violenza del compagno, offrivano di certo un contributo a che la spirale aggressiva si innescasse.

Nel ricordare in seduta, Daniela finiva per avviluppare le sue storie, sempre attorno alla medesima immagine della madre che supplichevole le chiedeva di non rientrare troppo tardi la notte e soprattutto di non bere alcolici. Sempre più anziana e con la voce sempre più flebile, nel vissuto di Daniela, la mamma subiva le iniziative della figlia, fino ad ammalarsi per queste preoccupazioni. È colpa mia se è stata male, continuava a ripetere Daniela, se non avessi fatto quello che ho fatto non avrebbe sofferto tanto.

 

 

Tra oggetto interno e oggetto esterno

 

Per molto tempo ho sentito forte la tentazione di unirmi alla già nutrita schiera di coloro che cercavano di tirarla via dalle sbarre nelle quali, dai suoi racconti, Ivan l’aveva rinchiusa. Mi tratteneva il pensiero di una trama che mi sembrava mettere in connessione, seppur non ne avessi colto immediatamente l’intreccio di cui era composta, la relazione originaria con una madre così violentemente depressa e soprattutto di una madre che nella sua estrema bontà e fragilità le aveva evidentemente indotto un vissuto di colpa profondo e vorace. Vorace come è l’introietto melanconico. Vorace come l’alcolismo sul cui bordo Daniela ha camminato per molti anni, fino a sprofondarci dentro dopo la morte della madre.

Un filo quindi che metteva in connessione la relazione con l’oggetto primario materno, unita a quella che appariva come il ricordo-‘fantasma’ (Giaconia e Racalbuto, 1997) di un padre eccitato che la sedeva sulle proprie gambe baciandola. L’adulta-bambina picchiata di ora, si riconnetteva con la bambina incestuosa di allora. E in gioco in questa circostanza il fallimento della rimozione della seduzione, e prima ancora la “mancata costruzione isterica della fantasia di seduzione” (Chabert, 2003).

Fallimento che apre ad una soluzione melanconica e perversa. Una mamma “morta” (Green, 1983) non sfidabile e un padre pericolosamente ambiguo sul piano dell’eccitamento sessuale configurano il collasso psichico di questa scena, che non può che restare nella forma del fantasma così come lo intendono G. Giaconia e A. Racalbuto (1997) e cioè come formazione psichica inconscia non rappresentativamente elaborabile; e, quindi, in quanto tale traumatica.

“Si tratta, certamente, dell’impossibile messa in scena della rivalità con la madre, ma soprattutto dell’impossibilità di confrontarsi con la passività che coinvolge la versione melanconica della fantasia di seduzione: la ragazza, colpevole di sedurre il padre, diventa il bersaglio privilegiato dell’accusa di trasgressione e della punizione a cui si espone, una punizione che la stessa accusa fa in modo di assicurarsi” (Chabert, 2003, p. 34).

Ciò che nella nevrosi si esprime attraverso la fantasia, prende qui la forma concreta della perversione. Quel “vengo picchiata da mio padre” di cui ci ha parlato Freud (1919) come fantasia dal carattere “indubbiamente masochistico” (p.47) si realizza in queste circostanze nel registro concreto di una relazione violenta, alla quale si è eroticamente legati.

E poi c’era l’alcolismo, che le aveva immiserito l’esistenza, consumato nel corpo e distrutto l’anima. E solo alla fine, come ultimo anello di questa catena distruttiva, arrivava Ivan, con le sue urla e aggressioni serali, alcolista, che a volte la rinchiudeva concretamente dentro casa per evitarle di scappare dal fratello. Una catena che legava l’interno con l’esterno e l’ora con l’allora.

Sentivo di dover rispettare la scelta di Daniela di restare in quella relazione abusante che la stringeva ad Ivan, in una morsa così violenta che a tratti mi preoccupava e mi portava a fantasticare tragici risvolti. Sentivo di non dover cedere il passo a quella compassione che lei controtransferalmente sembrava indurre. Non dovevo e non volevo darla per spacciata, colludendo così con le sue parti più distruttive.

Mi andavo convincendo che per liberarsi di Ivan doveva prima svincolarsi da un introietto violento e mortificante, abusante e inducente profondi sensi di colpa. Una colpa che Daniela espiava nella relazione con il compagno, nelle offese che da lui riceveva, a volte nei colpi e quasi sempre in un clima di tensione che tendeva all’incandescenza. Non era possibile per lei rinunciare a questa relazione, come lei stessa diceva, perché qualcuno avrebbe sofferto troppo. Vissuto proiettato su Ivan ma che parlava in ultima istanza di sé.

Bisognava che Daniela si riappropriasse della propria aggressività e che sentisse di poterne fare esperienza, intanto, all’interno della relazione analitica, dove impastata con la libido, non avrebbe distrutto ma costruito. Decisi allora di farle vedere i primi attacchi al setting, segno evidente che iniziava ad “usare” (Winnicott, 1969) la nostra relazione e che mi incoraggiavano lungo la strada dell’interpretazione. Erano passati quasi tre anni dall’inizio dell’analisi.

Solo così e solo allora potemmo iniziare un lungo e lento lavoro che l’avrebbe portata a lasciare Ivan, a trasferirsi dal fratello e a nutrirsi di piccoli piaceri.

 

Conclusioni

Non è lo scopo di questo lavoro tracciare i passaggi clinici del percorso analitico di Daniela, ma mi sembrava importante sottolineare che la relazione violenta all’interno della quale si era rinchiusa le offrisse alcuni vantaggi, sia sul piano economico che su quello dinamico.

Dal punto di vista economico, riprendendo Rosenberg (2022), potremmo dire che espiare le proprie colpe inconsce attraverso il legame sado-masochistico che intratteneva con Ivan, le permettesse di ridurre e quindi forse tollerare questi vissuti: “Così, il masochismo morale ci appare come un masochismo-custode-della nevrosi, o che si sforza di esserlo.” (p. 29)

Si aggiungeva però un rischio: mi era sembrato, infatti, che questo legame violento, sulla cui genesi aveva contribuito la fine dell’alcolismo, finisse con l’auto-alimentarsi per via del tentativo che la paziente faceva di nascondere il suo ruolo attivo nella dinamica aggressiva con il compagno. Daniela sapeva, oserei dire preconsciamente, che anche lei contribuiva ad istigare Ivan, a provocarlo, ad indurre in lui tensione e conflitti. Sapeva tutto ciò, ma lo nascondeva. Tenere per sé questo segreto mi sembrava alimentasse il suo senso di colpa. Colpevole sia per l’atto in sé, ma anche e soprattutto colpevole agli occhi degli altri/mamma verso i quali manteneva la narrazione di colei che subiva la violenza. Ed infatti mi era sembrato che tanto più venisse aiutata, tanto più venisse persuasa a lasciare Ivan, tanto più lei “incomprensibilmente” tornava da lui. Si sentiva una bugiarda, come quando diceva alla mamma che non avrebbe bevuto e che sarebbe tornata presto la sera.

Dicevo dei vantaggi sul piano economico e su quello dinamico. Da quest’ultimo punto di vista mi era sembrato che per l’Io di Daniela “depositare” (Bleger, 1966) nell’oggetto esterno il proprio oggetto interno carnefice, gli abbia permesso di potersene in qualche modo liberare.

L’identificazione proiettiva, come sappiamo dalla Klein (1946), permette all’Io di allontanare da sé l’oggetto cattivo, pur mantenendo con esso una qualche forma di relazione. Se, come ci ha insegnato Freud a partire dalla biografia di Dostoevskij, la mortificazione proveniente dall’esterno rende non necessaria quella proveniente dall’interno, e come abbiamo visto con Rosenberg il masochismo morale si pone a difesa della nevrosi, allora dobbiamo chiederci perché questo accade.

Oltre a quanto finora scritto, aggiungerei che confrontarsi con un oggetto esterno reale permette all’Io di poterne meglio controllare la dinamica di contatto. L’oggetto esterno è certamente più definibile e delimitabile, ci si può allontanare e riavvicinare, lo si può nominare e odiare, in ultima istanza si ha la sensazione di controllarlo di più. Credo che questo rappresenti per l’Io un indubbio vantaggio, impegnato come è nell’impossibile compito di ‘frontiera’ (La Scala, 2012) tra mondo interno e mondo esterno.

 

 

 

 

Bibliografia

Bleger, J. (1966). Psicoanalisi del setting psicoanalitico. In Setting e processo psicoanalitico. Milano, Raffaello Cortina, 1988.

Chabert, C. (2003). Femminile melanconico. Roma, Borla, 2003.

Fokin, P. (1966). Un certo Dostoevskij. Utet, 2021.

Freud, S. (1915). Pulsioni e loro destini. O.S.F, 8.

Freud, S. (1919). “Un bambino viene picchiato” (Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali). O.S.F, 9.

Freud, S. (1924). Il problema economico del masochismo. O.S.F, 10.

Freud, S. (1927). Dostoevskij e il parricidio. O.S.F, 10.

Giaconia, G. e Racalbuto, A. (1997). Il circolo vizioso trauma-fantasma-trauma. In Rivista di Psicoanalisi, 43(4), p. 541-58.

Green, A. (1983). Narcisismo di vita narcisismo di morte. Roma, Borla, 1992.

Klein, M. (1946). Note su alcuni meccanismi schizoidi. In Scritti: 1921-1958.

La Scala, M. (2012). Spazi e limiti psichici. Milano, Franco Angeli.

Rosenberg, B. (2022). Masochismo mortifero e masochismo custode della vita.  Alpes Italia, Roma, 2022.

Speziale-Bagliacca, R. (2000). Adultera e Re. Milano, Franco Angeli, 2000.

Winnicott, D.W. (1969). L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni. In Gioco e Realtà. Roma, Armando, 1974.

 


NOTE

[1] Corsivo mio.

[2] Tratto dal libro a cura di Pavel Fokin (1966), Un certo Dostoevskij, p.91.

[3] Corsivo mio.

[4] Corsivo mio.

[5] Corsivo mio.

 

[6] Tratto dal libro a cura di Pavel Fokin (1966) Un certo Dostoevskij, p.102.

[7] Ibidem.

[8] Corsivo mio.

[9] Ibidem, p.104.

[10] N.d.A Il romanzo verrà processato per oltraggio alla morale pubblica e religiosa e al buon costume.

[11] Corsivo mio.

[12] Corsivo mio.

[13] Corsivo mio.

Gaetano Filocamo, Padova

Centro Veneto di Psicoanalisi

gaetano.filocamo@hotmail.it

*Per citare questo articolo:

Filocamo G. (2025) Riflessioni sul masochismo morale, tra oggetto interno e oggetto esterno Rivista KnotGarden, 2025/2, Centro Veneto di Psicoanalisi, pp. 146-160.

Per una lettura più agile e per ulteriori riferimenti di pagina si consiglia di scaricare la Rivista in formato PDF.

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